Se l’era geologica in cui viviamo è Antropocene, la sua terra è la Tecnosfera. Con il tema Tecnosfera torna a Bologna FotoIndustria 2019, quarta edizione della Biennale di fotografia dell’Industria e del Lavoro.
La rassegna, in corso dal 24 ottobre fino al 24 novembre, curata da quest’anno da Francesco Zanot, è promossa dalla Fondazione Mast presieduta da Isabella Seragnoli. Un’edizione che si sposa con Antropocene, la mostra al Mast che ne rappresenta la cornice di senso e che meriterà un discorso a parte, co-curata da Urs Stahel e prorogata fino al 5 gennaio 2020.
Nel complesso, un impegno intelligente della Fondazione Mast per una consapevolezza collettiva del tempo in cui viviamo e riguardo la salute del pianeta, dal riscaldamento climatico alle megalopoli.
Tecnosfera è tutto ciò che l’uomo ha costruito per la propria sopravvivenza, secondo la definizione dello stesso studioso che ha coniato il termine Antropocene, Peter Haff. Infrastrutture ed edifici, ma anche templi, imprese, mezzi di trasporto. Tutto ciò di cui l’uomo si serve e con cui ricopre la crosta terrestre per un peso di 30 miliardi di miliardi di tonnellate.
Se ne deduce che Tecnosfera è anche le undici mostre che affrontano passato e presente dell’attività umana, operosa e industriale dell’uomo sul pianeta, dalla rivoluzione industriale a oggi. E che Tecnosfera è inoltre le undici sedi, il Mast e altre dieci prestigiose sedi storiche del centro di Bologna. Il tutto con la portata di “costruito”, di potere e di significato dei secoli passati e dell’età contemporanea. Parallelamente, FotoIndustria apre sottotesti e riflessioni sul ruolo della fotografia e del fotografo in quanto autore, investigatore, creatore, “uomo che costruisce” opere e senso.
Quattro sono le mostre storiche, con altrettanti celebri protagonisti della storia della fotografia, Albert Renger-Patzsch, André Kertész, Luigi Ghirri e Lisetta Carmi. Sette mostre contemporanee, con Armin Linke, David Claerbout, Matthieu Gafsou, Stephanie Syjuco, Yosuke Bandai, Delio Jasse e una immersiva, Antropocene, con Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier. In modo trasversale si può distinguere tra chi focalizza di più l’ambiente urbano e chi porta più attenzione all’uomo, al lavoro.
Alla mostra storica “Paesaggi della Ruhr” di Albert Renger-Patzsch, Pinacoteca Nazionale, sono esposte le splendide immagini riprese tra il 1927 e il 1935. Fotografie in bianco e nero scattate nel momento in cui la Ruhr stava per diventare “la Ruhr” industriale, ma ancora non lo era. Ci sono le attività estrattive e le fornaci, il paesaggio è spopolato, ma le mucche pascolano ancora. Renger-Patzsch aveva intercettato la trasformazione che stava per avvenire e la documentò. Interessante rivedere queste immagini ora, quando la Ruhr è diventata un grande parco archeologico, quasi chiudendo il cerchio narrativo della Tecnosfera.
Da qui, per affinità geografica e di interpretazione, troviamo una connessione con l’opera del belga David Claerbout. Nella proiezione “Olympia” rappresenta il continuo mutamento fino alla rovina in mille anni dell’Olympiastadion di Berlino, tra erbacce e terzo paesaggio. E’ il tempo che era previsto lo stadio durasse, nel 1936, quando venne fatto costruire da Hitler. La degenerazione è in tempo reale ad opera di un “innaffiamento” programmato al computer che genera con l’avanzare del tempo foresta spontanea e distruzione. A Palazzo Zambeccari, l’ellisse dello stadio berlinese parla perfettamente con la balaustra ovale che sovrasta lo scalone.
Tornando ai giganti delle mostre storiche, con Luigi Ghirri, nel nuovo spazio sotterraneo di Palazzo Bentivoglio, vediamo l’autore all’opera negli anni Ottanta con la foto industriale. In “Prospettive industriali” sono esposti gli scatti realizzati per Ferrari, Costa Crociere, Bulgari e Marazzi. Commesse che Ghirri interpreta da par suo, riuscendo, con la propria poetica, a stemperare i toni della proposta commerciale e ad aggiungere un velo di eleganza, talvolta di ironia. Le fotografie posano con garbo su mensole verdi e pannelli neri di ferro, in uno spazio di mattoni a vista con volte a botte e una sala con un pavimento a specchio.
L’eleganza degli allestimenti, a dir il vero, è una costante ed è diffusa in questo ritorno di FotoIndustria, così come diffuse sono la competenza e la gentilezza della guardianìa, formata per dare informazioni sulle mostre e gli autori.
Il progetto di Armin Linke, “Prospecting Ocean”, alla Bub-Biblioteca universitaria di Bologna in via Zamboni, è un ideale punto di connessione tra “Tecnosfera” e “Antropocene”. Rappresenta l’approdo di tre anni di lavoro sullo stato degli oceani, frutto di collaborazioni con i più importanti laboratori di scienze marine al mondo. In questo caso, il fotografo è al servizio di una causa, come artista e come intellettuale e il suo ruolo si sviluppa su altri scenari ancora: ricercatore e giornalista di inchiesta. Sparse nelle teche della biblioteca settecentesca ci sono videointerviste, riprese degli scavi oceanici, cartografie, disegni, vecchi manuali, recenti codici internazionali del mare per un discorso che si allarga sul mondo marino in generale. Una ricerca corposa, affascinante, che trova sintesi in un film proiettato al centro della sala.
Imponente il confronto tra mondi della Tecnosfera nella mostra “Porto di Genova” di Lisetta Carmi, allestita a Genus Bononiae – Santa Maria della Vita. Lì ci sono i suoi famosi camalli e scenari portuali, anni ’70, ma soprattutto ci sono i lavoratori dell’Italsider, sui quali incombe spaventato il gruppo scultoreo di terracotta del Rinascimento nel giorno della morte di Maria (“Transito di Maria”). Colonna sonora, “La fabbrica illuminata” di Luigi Nono, dedicata agli operai dell’Italsider, opera che rappresenta la stessa adesione dell’autrice al destino di quegli uomini.
Di André Kertész, alla Fondazione Carisbo – Casa Saraceni, sono esposti due reportage in bianco e nero, “Tires/Viscose”, in cui l’artista applica la sua cifra al fotogiornalismo o comunque a una fotografia documentale. Una serie, per la rivista ‘Fortune’, riguarda la fabbrica di pneumatici Firestone, mentre una seconda riprende operaie e operai della American Viscose Corporation, fabbrica tessile, concentrandosi sul rapporto tra uomo e macchina.
Di notevole impatto l’opera di Matthieu Gafsou, al Salone d’Onore di Palazzo Pepoli Campogrande, riprodotta tra parallelepipedi verdi dalle pareti luminose e arredi dorati su di un pavimento a scacchi. “H+” ci parla di transumanesimo, ossìa dell’umana paura di scomparire, in un mondo che pare proiettarsi verso l’infinito. Dai pacemaker all’intelligenza artificiale, a tutto quello che estende la sopravvivenza dell’uomo antropocenico e tecnosferico.
Il ruolo delle grandi città in trasformazione verso le megalopoli, luoghi di espropriazione di significato e di relazioni, riguarda altri due artisti.
Stephanie Syjuco espone al MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna “Spectral City”, un’opera che riguarda la gentrificazione ed espulsione della comunità filippina dal centro di San Francisco. Syjuco, filippina a sua volta, giustappone un filmato del 1906, “A Trip Down Market Street“, dei fratelli Miles, lungo la via centrale di San Francisco e la proiezione attuale della stessa strada con Google Earth, completa delle cancellazioni delle figure, spettrale e accompagnata da una musica ipnotica. Nel documento ripreso da un tram sul rettilineo, pochi giorni prima che il terremoto distruggesse la città, c’è una vita brulicante tra i palazzi, volti sorridenti o indaffarati. La ripresa attuale riporta solo cancellazione e sottintende quella operata dai grandi interessi rispetto alle vite delle persone comuni.
Altra cifra narrativa, ma sempre un racconto riferito ad uno sviluppo senza regole, se non quelle capitalistiche, quello di Delio Jasse, “Arquivo Urbano”, alla Fondazione del Monte – Palazzo Paltroni. Siamo a Luanda, capitale dell’Angola, la cui popolazione di cinque milioni di abitanti è destinata a triplicare entro il 2030. Su film di acetato o carta di cotone, appaiono architetture che stanno collassando, mentre in foglia d’oro spiccano scritte da pacchi in spedizione, per una civiltà che viene travolta da un neocolonialismo spietato.
Quel poco di significato che resta e che si può ricostruire, sembra cercarlo e raccattarlo da terra il giapponese, Yosuke Bandai, che espone al Museo Internazionale e Biblioteca della Musica “A Certain Collector B”. Pietre, pezzi di legno, ali di insetti, pezzi di plastica, rifiuti, montati in piccole composizioni. Fragili sculture scannerizzate e rese eterne per sempre, passando dall’inutilità all’eternità.
FotoIndustria, promossa e prodotta dalla Fondazione Mast, nasce nel 2013 con la direzione artistica di François Hébel che ha curato le prime tre edizioni, con l’intento di condividere con la città la missione culturale della Fondazione, ente non profit internazionale legato al gruppo industriale Coesia, concepita come tramite tra l’impresa e la comunità.
Le mostre si possono visitare gratuitamente previa iscrizione on line per il ritiro del badge. Previsto un calendario di eventi e visite guidate cui si partecipa gratuitamente ma con prenotazione obbligatoria.
(c) Fotoservizio Ums – in copertina l’allestimento di “Olympia” di David Claerbout.