Nel giorno del compleanno di Andrea (Catherine Deneuve), nonna e madre attenta e devota (o almeno così parrebbe), si radunano nella casa di campagna tutti gli affetti a lei più cari. Ovvero i figli, con rispettive mogli e fidanzate, i nipoti, e la “scomparsa” Claire (Emmanuelle Bercot), che sarà la vera protagonista della storia. L’occasione felice sarà invece il momento di sollevare i pesanti veli del passato, di fare pulizia di relazioni una volta per tutte e di rivelare verità tenute nascoste ai più. Non siamo nuovi a questo genere, basti ricordare uno dei film più belli, personalmente parlando, sul genere familia, che fu l’esordio di quel genio di Thomas Vinterberg nel 1998 con Festen, un capolavoro assoluto. Certo molto distante per temi e toni da questo francese.
“È la prima volta che giro un film famigliare, che è quasi un genere cinematografico vero e proprio, al pari della commedia romantica o del thriller – dice il regista – L’obiettivo è fare una commedia su un tema drammatico, stando attento a preservare sempre un equilibrio tra queste due dimensioni. C’è un sentimento di intimità tra i personaggi perché ciascuno di loro vive un dramma personale, ma c’è anche un lato farsesco che emerge con forza nelle scene di gruppo.
L’aspetto più impegnativo della scrittura è stato fare in modo che il racconto, che si sviluppa nell’arco di meno di una giornata, rivelasse i legami che uniscono i vari componenti di questa famiglia. In una cornice temporale molto compatta, quella di una festa di compleanno, comprendiamo i meccanismi di funzionamento di questa famiglia e possiamo supporre il modo in cui sono sempre stati spartiti i vari ruoli. Ogni famiglia è unica e tuttavia tutte le famiglie sono uguali. E all’interno di uno stesso nucleo famigliare, ciascun componente assomiglia agli altri e tuttavia vorrebbe essere diverso. La famiglia è una messa in scena teatrale: ognuno ha un ruolo da interpretare, un personaggio che gli è o le è stato assegnato fin dall’inizio, dalla prima infanzia, e del quale fa molta fatica a liberarsi.
In un altro ambiente, non necessariamente interpretiamo lo stesso ruolo, ma non appena entriamo in contatto con i nostri famigliari, riattiviamo le antiche dinamiche. Tutti recitiamo un copione che conosciamo a memoria. E l’interpretazione è tanto più
intensa quando ci ritroviamo a casa dei nostri genitori, con i quali ciascuno di noi ha un legame molto forte”.
Dice bene Kahn, la famiglia è – quasi sempre – quel luogo disfunzionale dove spesso interpretiamo un ruolo che non ci appartiene o dal quale vorremmo fuggire. Mi ricorda un po’ i libri di Isabella Santactroce, che sostiene che la famiglia (e i genitori di conseguenza), sia il primo male. L’origine di ogni nostro trauma, dolore, carenza, incapacità, insicurezza.
Non fa eccezione questo nucleo dove ognuno vive il suo dramma personale, la sua tragicomica vita, il suo delirio e poco importa che il pazzo sia internato o resti in famiglia, sempre in un grande ospedale psichiatrico ci troviamo.
Non sarebbe interessante rivelare la trama del film, che è al contempo semplice e intricata. Oltre alle storie dei personaggi, qui è più rilevante lo sguardo di Kahn sulle donne e sulla casa come luogo al contempo solido eppure così fragile.
Tragiche, potenti, comiche, forti. Possiamo assolutamente dire che sia un film su come le donne tengano le redini delle relazioni e come possano altresì sfasciarle. La casa è invece il luogo dove tutto origina, tutto risiede, ma diventerà anche motivo di un contendere all’interno dello stesso gruppo. E’ una sorta di cittadella, separata dal mondo, dove la famiglia ha creduto di poter vivere riparata dalle follie esterne, quasi in un’apnea emotiva e sentimentale, che verrà invece scardinata proprio dall’interno.
Il racconto è punteggiato anche da due canzoni, splendide e molto romantiche “Mon amie la rose” di Françoise Hardy e “L’Amour, l’amour, l’amour” di Mouloudji, oltre che da un brano rap.
“Ogni generazione ha la sua canzone – conclude Kahn – possiamo immaginare che il brano di Mouloudji assuma il significato di mascotte familiare: è un motivo che ascoltavano i genitori e che oggi lega i fratelli alla sorella. Mon amie la rose è la canzone di Claire. L’ho scelta soprattutto per le sue parole che risuonano con il personaggio, una sorta di dolce malinconia. Per il rap, volevo un pezzo sentimentale ed è stato Joshua, il giovane attore, a trovarlo. Il legame tra tutti questi brani consiste nel fatto che parlano d’amore. Mi piacciono molto le canzoni francesi nei film, ci autorizzano a essere sentimentali, nostalgici. Sogno un film dove tutto viene detto cantando”.