Il volto impietrito, di bellezza svuotata e annebbiata su sfondo nero inchiostro, ti aspetta implacabile là in fondo, in posizione laterale ma come un incontro a cui non si può mancare, dopo aver attraversato tutta la Prima Galleria costellata di tele e cornici. Sopravanza il volto la mano nitida, a fuoco, che regge un bastone sormontato da un teschio: è Robert Mapplethorpe e sta morendo.
Non si può pensare di non visitare, entro il 30 giugno, quando chiuderà, la mostra “Robert Mapplethorpe. L’obiettivo sensibile” alla Galleria nazionale Corsini a Roma, e di non percorrere e ripercorrere a sfinimento le sale allestite a cura di Flaminia Gennari Santori, immergendosi in uno dei progetti più efficaci mai realizzati in Italia attorno a questo maestro della fotografia.
La potenza dell’esposizione, a trent’anni dalla morte del fotografo newyorkese di famiglia irlandese e cattolica, deriva dal gioco di rimandi e richiami orchestrato tra le immagini in bianco e nero di grande fascino e intensità e la imponente collezione di tele e opere della Galleria, scelte e amate dal Cardinale Corsini. “I criteri settecenteschi di simmetria e euritmia e il gioco delle somiglianze – spiega Gennari Santoni nell’agevole piccolo catalogo – delle assonanze tematiche e dei cortocircuiti storici hanno guidato la collocazione delle fotografie tra i dipinti”. Un montaggio quasi cinematografico che genera un dialogo a specchio e cattura il visitatore in infinite profondità, con un effetto di arte aumentata in cui perdersi.
Così la Prima Galleria, quella in cui ti attende il Mapplethorpe morente dell’autoritratto del 1988, è un inizio dalla fine: perché, esposto sopra ad un piccolo putto da tavolo, c’è una foto di un Centauro botticelliano, italian devil addolorato e dall’istinto sconfitto, che ritroveremo invece nell’ultima Saletta in stile gabinetto segreto pompeiano, nelle forme di un diavoletto gaudente che sta per infilzare un pene stretto da lacci; perché ci sono corpi statuari neri, nudi, racchiusi come segreti (Ajitto, 1981) sotto il Trionfo di Ovidio di Poussin da un lato e la Negazione di Pietro dello Spagnoletto dall’altro; perché sulla parete parallela al ritratto del 1988 c’è un manifesto della bellezza, che richiama le Tre Grazie, nei corpi statuari a tonalità graduata di Ken, Lydia e Tyler, del 1985. Nella prima sala la summa della visione e del pensiero dell’autore esposto.
Siamo davanti al Mapplethorpe della maturità artistica e umana. Il ragazzo del 1946, raccontato da Patti Smith nel “Just Kids”, è da tempo alle spalle e la sua vita sregolata, la passione per l’erotico e il sadomaso da tempo sono stati sublimati in arte, sull’onda di una pulsione che è più forte di quella fisica, perché è tormento interiore che approda nella ricerca estetica. Dal 1975, infatti, nella relazione con il collezionista e mecenate Sam Wagstaff, che lo sostiene, la coscienza e conoscenza di Mapplethorpe per l’arte ha occasione di espandersi ulteriormente e scendere in profondità.
Appese alla quadreria, esposte su pannelli di colore bordeaux che si accompagnano ai toni pastello delle sale cardinalizie, le fotografie in bianco e nero inchiostro di Mapplethorpe, ritratti, calle, orchidee, frutta e altri fiori, nudi classici e reali, peni naturali, eretti o catturati, appaiono con garbo nelle sale cardinalizie e reggono il confronto con opere come il San Giovanni Evangelista di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio o la Testa di Vecchio di Pieter Paul Rubens o la Salomè con testa di Giovanni di Guido Reni. Le nature morte dialogano con quelle di Christian Berentz e dalla Camera del Camino il magnetico Marcus Leatherdale, dio a torso nudo con un coniglio morto sulla spalla, sembra richiamare la Lepre cinquecentesca di Hans Hoffmann, simbolo di Galleria Corsini, esposta nella Prima Galleria.
Il progetto, attestato alle Gallerie Nazionali di Arte Antica, Galleria Corsini e Palazzo Barberini, prosegue l’intreccio tra passato e presente iniziato con Parade di Picasso nel 2017 e la mostra Eco e Narciso nel 2018. Un dialogo che viene sperimentato sempre più spesso da diverse istituzioni museali, in generale più stimolante che deludente, con alterni successi.
Indubbiamente nel caso della mostra in corso si tratta di un’operazione più che riuscita. Le opere di Robert Mapplethorpe qui sono a casa e lui stesso avrebbe potuto muoversi in questo ambiente, che non ha conosciuto, con grande naturalezza. A loro volta, i capolavori della collezione del Cardinale beneficiano dello sposalizio, perché vengono guardati con luminosità nuova, amplificata dalla relazione con il bianco e nero. Basti soffermarsi sulla sequenza delle nature morte, o sugli scambi di sguardi e di simmetrie tra statue, ritratti di statue, ritratti di persone, in particolare nella Camera del Camino, il Gabinetto verde e la Camera verde.
Non resta che perdersi in queste stanze, dove la relazione tra l’arte contemporanea di Mapplethorpe e l’arte del Seicento esposta in Galleria è di pelle e anima e finisce per esaltare entrambe. Se non si riesce a sopportare tanta bellezza, cosa possibile, si tornerà una seconda volta.