L’ultimo film di Lars von Trier è sicuramente il film più controverso del misantropo danese. Proiettato fuori concorso allo scorso Festival di Cannes, “La casa di Jack”, in sala dal 28 febbraio, è grottescamente violento, provocatorio e scorretto come ci si aspetta da un film di 155 minuti su un serial killer scritto e diretto dalla mente squilibrata che c’è dietro Dancer in the Dark, Antichrist e Nymphomaniac.
Dopo anni di ritratti di protagoniste femminili, von Trier questa volta si dedica ad un uomo. Siamo negli Stati Uniti degli anni 70. Matt Dillon interpreta Jack, un ingegnere psicopatico con tendenze ossessivo-compulsivo, che si fa chiamare Mr. Sophistication perché ogni suo omicidio deve essere un’opera d’arte: sempre più complessa e ingegnosa. Inizia così una partita a scacchi contro la polizia lunga dodici anni durante i quali Jack ha tutto il tempo per uccidere oltre 60 persone. Il film ha scelto di concentrarsi su alcuni di loro. A cominciare da una snobbish Uma Thurman che gli chiede soccorso per strada.
A presentare a Roma il film in anteprima, c’è proprio lui Mr. Sphistication. Matt Dillon, il sex symbol de I ragazzi della 56ª strada e Crash, racconta: “Non è stato facile accettare di interpretare Jack. Ho avuto tantissimi dubbi prima di dire sì. Ero veramente spaventato dal personaggio, ma al tempo stesso non volevo farmi sfuggire la possibilità di lavorare con Lars, un regista che è un sorpresa continua, un continuo esperimento”.
Lo spettatore segue la storia attraverso i dialoghi con un enigmatico interlocutore di nome Verge – Bruno Ganz, il celebre attore svizzero scomparso tragicamente lo scorso 16 febbraio all’età di 77 anni – che sembra evocare Virgilio, guida spirituale di Dante. Basta poco per intuire che le conversazioni filosofiche tra i due sono uno stratagemma adottato da von Trier per proiettare nel film la sua infanzia e i suoi demoni, anche quelli artistici. La carriera da serial killer di Jack è raccontata in cinque capitoli che il regista danese chiama “incidenti”. Il tutto mentre «Fame» di David Bowie pompa l’azione tra un episodio e l’altro. Ogni omicidio è più cupo e scioccante dell’ultimo e si susseguono a suon di randellate violente, smembramenti, crudeltà su animali, violenza sessuale contro le donne e mutilazioni post-mortem. Tra le scene più macabre c’è quella in cui ad una donna viene tagliato un seno. A von Trier riesce anche di abbattere uno dei tabù più resistenti nella storia del cinema mostrando immagini di bambini presi a fucilate.
Il film è talmente infarcito di crudeltà estrema da trasmettere una completa mancanza di empatia con una credibilità agghiacciante. Mentre Matt Dillon è semplicemente perfetto nel ruolo dell’anima solitaria, vuota e condannata alla dannazione eterna. “Ma sono state tante le scene che mi hanno in ginocchio“, ammette l’attore, che aggiunge: “la cosa più difficile per me è stata dover imparare a non giudicare Jack per le sue azioni. Per entrare in sintonia con lui ho dovuto completamente annullare quella parte di me. Non mi sono ispirato a nessuno dei grandi assassini che abbiamo visto sul grande schermo. Più che altro mi sono affidato a varie ricerche su internet, su vari serial killer e ho letto cose veramente atroci“.
La casa che Jack ci costringe a guardare dentro le fosse dell’inferno. Ci racconta di un mondo apertamente misogino dove gli uomini parlano delle donne come persone incomprensibili che o si ribellano o acconsentono per opportunismo. E’ un viaggio attraverso gli atti più disumani che l’umanità abbia mai prodotto. Se a Cannes più di 100 persone hanno abbandonato la sala, significa che Lars von Trier ha ottenuto quello che voleva: dimostrare l’ipocrisia di un genere animale, quello umano, che ha radici inestirpabili.
Detto questo, La Casa di Jack è pieno di idee, alcune profonde, altre disgustose, ma rimane un film. La realtà è più cruda delle rappresentazioni scenografiche. “Non lo so se viviamo in un mondo dove domina la violenza, ma è anche vero che se guardiamo a quello che accade ogni giorno, a tutta la sofferenza e alle ingiustizie che ci circondano, è piuttosto difficile credere il contrario”, conclude Dillon.