Woman, Humanity, Dignity. In sintesi Womanity. Tre parole forti, come le tre storie di donne che racconta Barbara Cupisti nel suo ultimo documentario prodotto con RaiCinema e presentato alla 13. edizione della festa del cinema di Roma. Donne che la vita normale ha reso quasi eroiche per i colpi che hanno dovuto sopportare e per la dignità con la quale hanno accolto, accettato e trasformato la loro terribile situazione.
Non c’è pietismo né vittimismo, c’è resilienza, c’è umanità, c’è il cuore pulsante di chi vive ogni giorno situazioni al limite del possibile. Ma essere donna è anche questo. Siamo sempre più forti di quello che ci accade. E si va avanti provando a dare comunque amore al mondo ma, prima di tutto, lezione essenziale, a sé stesse.
Senza questo passaggio di dignità e di presa di coscienza del proprio ruolo e nel mondo non ci sarebbe resistenza. La Cupisti apre così le porte alle complesse esistenze di tre anime che segue per 36 ore “per dare – afferma – il valore della ripetizione del gesto. Senza ripetizione sembrerebbero situazioni eccezionali, invece questa è la loro normalità”.
“Ho iniziato a pensare a questo film 10 anni fa, durante la lavorazione di Madri”, racconta Cupisti. “L’incontro con queste donne straordinarie ha continuato a lavorare in me e, arrivata al mio decimo film, ho pensato di onorare questo traguardo importante con un documentario dedicato alle donne alla loro forza e resilienza. Ho incontrato donne incredibili nel mio percorso di vita, donne di cui non sempre ho potuto raccontare le storie, a partire da mia madre e mia nonna, donne lottatrici, eroine del quotidiano di cui si parla troppo poco o per niente. Nei campi profughi, alle pendici dell’Himalaya, nella foresta brasiliana, nei territori occupati, nell’occidente che ha perso la sua civiltà, nei campi rom e un po’ ovunque io sia stata in questi ultimi anni, le donne mi hanno sempre parlato di futuro, di speranze, di sogni, con sacrifici incredibili hanno ricostruito le loro vite e quelle delle loro famiglie, dei loro cari, della comunità di cui fanno parte. Potrei anche dire che questo è un film sulla solitudine, perché ciascuna donna, nella sua solitudine interiore e non, porta avanti la propria battaglia ogni giorno, in silenzio. È stato molto complicato”.
Il film narra 36 ore di vita di quattro donne, in luoghi del mondo completamente diversi, con orari diversi, clima diversi, usi diversi. E sono Sisa, un’egiziana che per difendere il suo diritto a non sposarsi si veste da uomo da oltre 40 anni perché solo così ha potuto garantire una sopravvivenza a sua figlia. Geeta e Neet, indiane, rimangono vittime di un terribile attacco con l’acido nel 1993, quando Neetu aveva solo 3 anni d’età. L’attacco fu operato dal marito di Geeta, e padre di Neetu, che aveva l’intenzione di ucciderle per potersi risposare con un’altra donna che gli avrebbe potuto finalmente dare un figlio maschio. Normalmente, le donne che sono state sfigurate con l’acido si vergognano della loro condizione e non escono di casa, se non completamente coperte, in modo da non svelare le loro presunte colpe. Geeta e Neetu hanno percorso una strada diversa: si sono unite al caffè “Sheroes Hangout” di Agra e sono parte orgogliosa di questa realtà gestita interamente da donne che hanno subito attacchi con l’acido vittime di uno sfregio per questioni di matrimonio e discendenza. La loro forza di denuncia porterà il coraggio in tutte le altre donne vittime di questa follia ad accettarsi e ritornare alla vita a volto scoperto.
Infine Jonnie, una camionista americana, costretta a fare i conti con un padre padrone che la abusa psicologicamente, il bullismo e il sovrappeso e infine ad accettare lavori da uomo in una comunità dominata da valori prettamente maschili. Curioso l’accostamento dell’America con Egitto e India ma come afferma la Cupisti che vive lì da 5 anni “nessuno crede che un paese democratico come gli Usa nasconda invece tanta povertà, miseria e storie di dolore e umiliazione assolutamente identiche in tutto il mondo”. Nelle.stesse 36 ore a Washington un corteo di donne manifesta per il rispetto dei diritti umani, affermando ancora una volta che i diritti delle donne vanno rispettati e questa forza resiliente non sarà più messa a tacere.
“Womanity è dedicato a Chantal Akerman – spiega la regista – che ho avuto l’onore di incontrare a Venezia, eravamo entrambe nella giuria di Orizzonti, Chantal ne era la presidente. Era brava, forte, libera e un po’ folle, come solo i geni sanno essere. Non amava le menzogne, non aveva pregiudizi ed era inarrestabile nel cercare la verità nei film e nella vita. Lavorare, seppur brevemente, con lei mi ha insegnato il coraggio in questo mestiere, il coraggio di non lasciarmi intimidire in un ambiente dominato dagli uomini”.