E’ Marcello Mastroianni stesso a guidarci nella mostra a lui dedicata, a Roma all’Ara Pacis fino al 16 febbraio 2019, aperta pochi giorni fa in chiusura della Festa del Cinema.
Promossa da Roma Capitale e Sovrintendenza capitolina, prodotta dalla Fondazione Cineteca di Bologna con il sostegno di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna e Mibac, “Marcello Mastroianni”, assolutamente da vedere, è allestita sotto l’attenta curatela del direttore della Cineteca Gian Luca Farinelli con sapiente essenzialità e affetto profondo, attraversando i passaggi cruciali di una vita nel cinema e dello stesso cinema italiano.
Come filo conduttore, spezzoni video scelti dal film documentario “Mi ricordo, sì, io mi ricordo”, la lunga confessione-intervista rilasciata da Mastroianni alla regista e compagna Anna Maria Tatò nel 1996 e uscito postumo nel 1997. Per l’occasione la Cineteca ne ha anche opportunamente rieditato il testo, altrimenti fuori catalogo.
Ci accoglie quindi, come prima scena, un video in cui riconosciamo l’ombra di profilo di Mastroianni già anziano, che elenca alcuni ricordi, la caccia alle lucertole, la prima notte d’amore… Così in un viaggio a ritroso, che durerà oltre 600 foto, diverse inedite, un centinaio di minuti di proiezioni su 145 film, costumi di scena e documentazione, rimontando pezzi del “Mi ricordo…” in ordine cronologico, viene ricostruita la grande avventura di questa “figura d’attore irripetibile – come ha detto di lui Farinelli questa estate annunciando la mostra – che ha coniugato il grande interprete e l’icona, l’eleganza e l’empatia, la sensibilità e lo scanzonato disincanto”.
Come una guida, con il nume tutelare Anna Maria Tatò dietro la macchina da presa, le parole di Mastroianni ci fanno conoscere gli inizi, la famiglia, la bottega da falegname del padre Ottorino e del nonno, “l’odore del legno e del sudore” e l’insegnamento “delle cose modeste e di una certa umiltà”.
A fianco, una certa vena artistica della famiglia, legata alle arti applicate, cui la stessa figlia Barbara, recentemente scomparsa, era tornata.
Quindi dopo varie comparsate a Cinecittà già da bambino, l’approdo alla sua vera scuola attoriale, il teatro, grazie prima a Giulietta Masina, poi all’esigente Luchino Visconti (che riconosce in lui unaSchlamperei austriaca come autodifesa, la stessa indolenza che gli attribuiva Fellini chiamandolo Snaporaz) con cui lavorò per dieci anni e dove Vittorio Gassman lo costrinse a vincere le sue paure, afferrandolo “come un gatto” e costringendolo ad andare in scena.
“Non leggeva moltissimo, ma possedeva una gran capacità di captare il mondo che lo circondava. – così ha detto di lui Mario Monicelli, in apertura del catalogo della mostra – E’ così che aveva acquisito la sua cultura, vivendo. Come tutti i grandi attori Marcello aveva la missione di curare il mondo. La sua silhouette così discreta, senza parole inutili, così autoironica, ha portato nel mondo intero un’idea della nostra civiltà, della nostra cultura, che ben pochi altri hanno saputo offrire con la stessa eleganza”.
Una civiltà fatta di intelligenza veloce, una cultura eclettica tra alto e basso, che ha le mani da falegname e sogna di diventare architetto per costruire case, ma trova in Cechov e nei suoi mezzitoni un fratello di sangue e in Diderot la misura dell’artista che piange senza piangere, come suggerisce di lui Tullio Kezich, parlando del “Mi ricordo”: un “commediante pragmatista” che racconta “con stoico umorismo, pudica ironia e reticente tenerezza la sua vita d’arte e la sua arte di vivere”. La Tatò stessa ha descritto “la levità, la naturalezza con cui riesce a fondere il grande con il piccolo”.
E’ proprio da questi scarti, che la mostra rileva in modo preciso, che si resta affascinati e che si comincia a cercare questo spazio incerto nelle espressioni lievemente mobili e appena accennate dell’attore.
Parallelamente al teatro l’esperienza del cinema, che entra nelle vene di Mastroianni al punto che confesserà di preferirlo al teatro, proprio per la sua irregolarità, la sua improvvisazione, il suo essere un carrozzone in continuo cambiamento e movimento.
Con “La Dolce vita”, l’inizio della lunga collaborazione con Fellini parte con la descrizione strepitosa del loro primo incontro. Ruolo centrale nella vita di Mastroianni e anche nella mostra, che da qui decolla con una serie di apparati fotografici di immagini dal set, che permettono di uscire dall’iconografia classica e per forza stereotipata dato il successo mondiale di questo e dei film a seguire.
Negli splendidi scatti, perlopiù di Reporters Associati & Archivi, che si incontrano nelle varie sale, ci sono le sequenze alla Fontana di Trevi con la Ekberg e la troupe, le tante espressioni di amicizia fraterna e complice con Fellini che mostra in vari set come interpretare le scene, le pause tra le registrazioni fumando una sigaretta con la Loren e Fellini, la Loren e De Sica durante la scena dello spogliarello in “Ieri, oggi e domani”. Poi gli spezzoni, brevissimi, dei più importanti film interpretati, di Scola, Ferreri (che di lui dice “non recitava”), Petri, Risi, gli abiti di Bruno Piattelli, i costumi della Fondazione Tirelli Trappetti.
Lievi accenni alla vita personale, piuttosto marcata invece la sottolineatura, mai abbastanza recepita dalla stampa, che non sopportava, del non essere un latin lover: “Latin lover de che? Una cosa da impazzire ma di stupidità. Ma li avete visti i miei film?”. E qui la sequenza: dopo la Dolce vita, l’impotente, il laido cornuto, un uomo incinto, l’omosessuale. “Ah che pazienza”.
Spicca in effetti, e viene sottolineata dalla rassegna dei film, il suo desiderio di sperimentare ruoli nuovi, audaci, in cui immancabilmente riusciva, ma come in una costante ricerca di un significato nuovo in questa vita appassionatamente dedicata al mestiere di attore, in cui non deve essersi mai sentito paragonabile ai mostri sacri che ammirava da ragazzo, quali Gary Cooper o Clark Gable, anche se evidentemente anche lui è nell’Olimpo, e forse anche in Paradiso.
Quando il racconto e la vita volgono al termine, c’è uno spezzone di “Mi ricordo” in cui, architetto mancato, descrive la sua casa ideale: “Un dirigibile, parcheggiato in cima alla torre Eiffel, ti addormenti a Nord e di svegli a Sud”. Nonostante la malinconia, in chiusura, del veder avvicinare la fine nel “prossimo villaggio”, la mostra trasmette il senso dell’incontro forte del pubblico di tutto il mondo con questo attore, il senso di una certa “nostalgia del futuro” di cui lui stesso parla, “la forza di immaginare di fare un viaggio e trovare, in una stazione sconosciuta, qualcosa che potrebbe cambiare la nostra vita”.
La Tatò ricorda che “I grandi attori non si dirigono, si guardano”, come disse Michel Simon. Si guardano e si lascia che agisca il mistero che loro, come ciascuno di noi in fondo, conservano.