La luce intensa di questa quasi estate infastidisce gli occhi, così come quella dello schermo eppure bisogna scrivere l’articolo su Salvini ed il suo ultimo slogan/minaccia. Ecco l’incipit: Salvini è un razzista ed è un fascista. Il nazismo del lombardo che divenne ministro. Se si calca un po’ di più la mano arrivano più ‘mi piace’ e magari non si rischia di passare per ‘populista’. Sì perché criticare la sinistra, da sinistra, è come mostrare la scheda elettorale con la croce sul simbolo del M5S o peggio su quello della Lega. Un sospetto che può introdurti in una lista di proscrizione. Perché ricostruire la sinistra, per molti a sinistra, ahinoi, significa dare del fascista al solito fascista, all’avversario politico che si conosce da decenni e che sempre quel linguaggio ha usato, cambiando ogni tanto i soggetti a seconda delle esigenze elettorali e delle emergenze, e che, ahinoi ancora, rappresentanti politici di sinistra, intellettuali di sinistra, hanno contribuito ad alimentare o a dimenticare, a seconda delle esigenze elettorali e delle emergenze più meno imposte dal ‘sistema’ ed in nome delle quali sono stati ceduti diritti economici e sociali, scarnificandoci a vicenda fino all’osso, fino ad oggi quando restano da smantellare i diritti civili prima ancora che questi siano pienamente garantiti a tutti.
E allora il grido Salvini razzista, ministro di questa repubblica che alimenta il sogno di vendetta di una maggioranza incarognita, immiserita nel portamonete ed impoverita nell’anima, non lo leggerete qui e non da chi scrive.
La questione rom racconta una storia molto più complessa ed articolata, dove il ‘noi’ ed il ‘loro’ si gioca ad altri livelli, dove le presunte incompatibilità culturali ed i pruriti del ministro Salvini, i luoghi comuni tutti servono a fare solo un altro po’ di polvere. E senza andare troppo indietro nel tempo, si comincia dal novembre 2007 , quando l’Alto Commissariato dell’Onu per i Diritti Umani già richiamava l’Italia per il mancato rispetto delle norme internazionali in materia di diritti delle popolazioni rom. Quel richiamo ufficiale accese i riflettori internazionali sulla pratica degli sgomberi forzati degli insediamenti ‘legali’, oltre che di quelli abusivi, ordinati a Roma ed in altre città italiane, nonostante in quegli insediamenti vivessero comunità rom di soggiorno storico, stanziali, non nomadi. Nella capitale quella operazione fu ordinata dal sindaco Walter Veltroni. La condanna dell’Onu seguiva di pochi mesi quella emessa nel 2006 dal Comitato Europeo per i Diritti Sociali (CEDS) che condannava l’Italia per la sistematica violazione del diritto delle popolazioni rom ad un alloggio adeguato, in riferimento all’art. 31 e art. E della Carta Sociale Europea Revisionata.
Il processo di restauro e decoro, modello Veltroni, fu avviato il 22 febbraio 2007. Prevedeva operazioni di sgombero e ‘delocalizzazione’ dei cittadini rom, già allora censiti dalle amministrazioni di vari colori politici. Quel piano di azione fu pianificato dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica di Roma, l’organo collegiale di consulenza dell’allora ex Prefetto di Roma, Achille Serra.
Nel marzo 2007, invece, il Ministero dell’Interno, presieduto dal ministro Giuliano Amato, e l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani siglarono il Patto per la Sicurezza, a cui seguirono, pochi mesi dopo, i Patti per Roma sicura e per Milano sicura.
Lo ricordiamo per dovere di cronaca. Il Patto per Roma sicura così recitava : «interventi risolutivi delle esigenze di contenimento delle popolazioni senza territorio, nonché inclusione sociale, attraverso, rispettivamente: la costruzione di quattro villaggi della solidarietà in aree attrezzate in grado di ospitare circa 1000 persone – ciascuno da realizzare su aree comunali o demaniali – disciplinati da specifici regolamenti di gestione; programmi di abbattimento di insediamenti abusivi, con successiva riqualificazione delle aree liberate».
Il modello Roma di Valter Veltroni prevedeva i cosiddetti villaggi della solidarietà e quel modello fu aspramente contestato da molti che oggi sembrano avere la memoria impolverata. Già allora si faceva tanta fatica a far comprendere che degli allora 160.000 mila rom censiti, il 60 % erano cittadini italiani, ai quali bisognava aggiungere un numero imprecisato di giovani di seconda e terza generazione figli di rom di recente immigrazione, nati e cresciuti in Italia che sistematicamente al raggiungimento della loro maggiore età si ritrovavano, e si ritrovano, in una condizione di apolidia de facto con l’impossibilità di essere riconosciuti cittadini italiani a causa di un’inestricabile trama giuridica che non ha raccolto per tempo i mutamenti sociali in atto, soprattutto dopo gli eventi bellici che disintegrarono la Jugoslavia ed innescarono esodi di sopravvivenza a partire dagli anni ’90.
Accade che mentre Salvini ringalluzzisce la folla con un altro dei suoi sfoghi preferiti, approfittando della mancata partecipazione ai mondiali della nazionale italiana, la Regione Lazio di Nicola Zingaretti conceda al Comune di Roma altri quattro anni per attuare il superamento del campo nomadi di Castel Romano. Una proroga fino al 2021 dopo una esplicita richiesta inoltrata dal Campidoglio nel novembre 2017. Serve allora fare un breve riassunto di quest’altra emblematica storia, come monito, forse solo per riattivare la pratica del dubbio e forse ammettere che il fascismo ha molti modi perché sia nutrito e rinfrancato, anche in maniera meno plateale ed attesa.
Era il 2005 quando il campo di Vicolo Savini, dove abitavano da trent’anni 770 persone, venne sgomberato per emergenza sanitaria. Trent’anni di emarginazione non possono che produrre emergenze sanitarie, lo scrivemmo nel 2007 con la dr.a Laura Nobili su Nazione Indiana, lo riporto oggi. […] Al km 24 della via Pontina, nei pressi di via di Trigoria, fu allestita dalla Protezione Civile una tendopoli: 200 tende, ognuna per gruppi di 4 o 5 persone, 100 gabinetti chimici, 3 serbatoi d’acqua, 2 tendoni per le cucine, e una trentina di docce. Il più grande campo d’Europa fu distrutto e Walter Veltroni, in compagnia dell’Assessore alle Politiche Sociali Raffaella Milano, illustrò alla stampa progetti e prospettive cui sarebbero state destinate quelle vite, sradicate da un terreno di proprietà dell’Università Roma Tre. Dopo due mesi di permanenza, la comunità avrebbe dovuto essere spostata in sistemazioni più confortevoli, composte da moduli abitativi prefabbricati, e presso aree che l’amministrazione comunale avrebbe individuato, garantendo altresì il rimpatrio facilitato nei paesi d’origine per alcuni o l’accesso ai fondi destinati all’emergenza abitativa per altri. Il megacampo di Castel Romano, prototipo dei famosi villaggi della solidarietà, nasce così da un lancio di dadi sulla Pontina, nell’area di Decima Malafede.
Decima Malafede è una Riserva Naturale, sottoposta a vincolo ambientale; una serie di norme regionali ne garantiscono – o dovrebbero garantirne – l’inviolabilità del territorio, del suolo, delle specie animali e vegetali e delle falde acquifere. Un Ente Autonomo della Regione Lazio (Roma Natura) ha il compito di renderle esecutive. I rom del campo non hanno acqua potabile, ma l’amministrazione comunale, oltre ad aver davvero fornito ai rom dei moduli abitativi prefabbricati installandoli in un’area sottoposta a vincolo ambientale, ha provveduto immediatamente al riequilibrio del disagio idrico: le autobotti riforniscono le persone di acqua nera e maleodorante, che deve bastare a tutti per lavarsi, pulire, cucinare – e per bere.
Il divieto di utilizzare le acque della riserva naturale (DL n.152 del maggio 1999) ha come conseguenza almeno due altre fondamentali omissioni di gestione che rendono inaccettabile la qualità della vita nel campo: l’impossibilità di allestire un sistema fognario e l’impossibilità di rendere funzionante un impianto antincendio. Le ditte appaltate per la messa in opera del campo hanno provveduto alla fornitura delle attrezzature antincendio; il dubbio potrebbe sorgere qualora si scoprisse che non vi sono schede tecniche di collaudo delle stesse. E il dubbio si rigenererebbe da sé se volessimo chiedere di verificare le schede di manutenzione ordinaria che ogni sei mesi vanno compilate dalla ditta che se ne occupa. Per capirci: ci sono le manichette per gli idranti, ma non possono essere collegate alla rete idrica. […]
E i bambini, tanto cari alle amministratori? Tra un’emergenza scabbia e l’altra, per i bambini furono previsti progetti di scolarizzazione ed innumerevoli altri progetti: peccato che quei bambini di Castel Romano, tanto cari a tutti i papà di destra e sinistra, allora, sarebbero andati molto più volentieri a scuola se, anziché fare un tragitto di circa un’ora e mezza per raggiungere la scuola assegnata da un Protocollo di Intesa già allora desueto e vecchio, avessero potuto andare alla scuola vicina di Pomezia. Quando si parla di dispersione scolastica!
E poi? E poi scoppiò il caso Mafia Capitale e Castel Romano ebbe un’altra iniezione di celebrità mediatica. La cupola romana smascherata dalla Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone parlava di un ex estremista di destra, Massimo Carminati e di Salvatore Buzzi, ras della cooperativa 29 giugno, e del malaffare concentratosi su Castel Romano, realizzato dalla «Impegno per la Promozione» di Sandro Coltellacci per un investimento di 5,3 milioni di euro. Serve allora ricordare un ultimo tassello di una storia sotterranea di fascismo, razzismo, malaffare, convenienza, connivenza, omertà, arrivismo, perbenismo, corruzione partita da lontano. Era il 2014 quando i giornali riportarono le dichiarazioni di Sandro Coltellacci agli inquirenti. La gestione del campo non fu affidata attraverso una gara d’appalto, ma attraverso un’ordinanza del sindaco Walter Veltroni, quei rom dovevano sparire dal centro ludico e ricreativo della Roma eterna nel cuore dell’Italia. Ciò che accade nel resto del paese fu ed è in risonanza, amplificata o meno, dipendeva e dipende dalla cronaca nera e dagli umori dei capi popolo di turno.
La responsabilità morale della miseria la portiamo tutti, perché combattere i fascismi obbliga sempre a scegliere di non scendere a compromessi, soprattutto se è la vita dei singoli ad essere in gioco, il loro futuro ed il nostro, oggi depauperati come ‘loro’ del diritto ad una felicità condivisa.