I Promessi Suoceri è il nuovo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Paolo Caiazzo, in scena il 14 aprile 2025 alla Sala Umberto di Roma. Accanto a lui, Maria Bolignano e un cast composto da Antonio D’Avino, Yulia Mayarchuk, Domenico Pinelli, Giovanna Sannino, per un progetto teatrale che, dietro la maschera della comicità, mette in scena la paura della trasformazione, l’ostinazione delle radici, il linguaggio – ancora attualissimo – della famiglia come campo di battaglia culturale.
L’idea di Caiazzo parte da un passaggio biografico comune e apparentemente ordinario: diventare suoceri. Ma il passaggio, se guardato da vicino, si rivela pieno di fragilità e contraddizioni. Antonio, ex animatore turistico, incarna un certo tipo di mascolinità popolare e un desiderio artistico frustrato. La moglie, Elisa, è un’insegnante rigorosa, che in quella frustrazione ha forse avuto una parte. Quando la figlia Lucia annuncia il proprio fidanzamento con Renzo, tutto ciò che era rimasto in sospeso nel passato torna a galla.
L’incontro tra le due famiglie – che dovrebbe essere rito di passaggio e riconciliazione – diventa allora uno scontro frontale tra mondi inconciliabili. La famiglia dello sposo, composta da un padre con legami opachi e una madre dal passato televisivo, sembra mettere in crisi ogni tentativo di negoziazione culturale. A emergere non è solo la distanza sociale, ma la paura di perdere il controllo, di essere messi da parte. Di finire, come dice Caiazzo nel testo, “nella soffitta dei ricordi”.
Il riferimento a I Promessi Sposi è esplicito, ma qui non c’è Don Rodrigo. Il vero ostacolo è interno, familiare, psicologico. È il retaggio, sono le aspettative, è il non saper cambiare. La commedia gioca sui registri della tradizione partenopea, con echi evidenti di Scarpetta e della commedia dell’arte, ma il cuore del lavoro si muove in un terreno più contemporaneo: quello delle relazioni intergenerazionali, della trasformazione dei ruoli, dell’identità maschile che vacilla. Ci sono momenti di leggerezza e altri di rottura. Il ritmo serrato della scrittura alterna situazioni farsesche a momenti più duri, quasi da resa dei conti emotiva. Il pubblico ride, ma si riconosce. Perché le dinamiche messe in scena – i silenzi tra padri e figli, i rancori taciuti tra coniugi, i giudizi sommersi verso ciò che è “altro” – toccano corde collettive. E il teatro, anche quando è commedia, può essere uno specchio crudele.