Sulle tavole del Teatro Argentina arriva Ho paura torero, tratto dall’unico romanzo del cileno Pedro Lemebel. In scena dal 3 al 17 aprile, diretto da Claudio Longhi con Lino Guanciale nel doppio ruolo di dramaturg e attore, lo spettacolo porta la letteratura queer e sovversiva del Sud del mondo nel cuore della capitale, dentro uno dei teatri più istituzionali d’Italia. Ma non è uno spettacolo che si lascia imbrigliare dalla retorica. È una materia incandescente che risuona sotto la pelle del presente, anche quando racconta il passato.
Santiago, 1986. Una dittatura che si ostina a mostrare i denti. Un travestito gentile – la Fata dell’angolo – che canta boleri e sogna l’amore. Un giovane rivoluzionario. E la città che li inghiotte, li osserva, li tradisce.
A teatro, si sa, ogni parola è un gesto. Ma qui ogni gesto è anche una presa di posizione. La scelta di portare in scena Lemebel – scrittore militante, malato, marginale – è già una dichiarazione. Il suo linguaggio barocco e pop, ironico e struggente, resiste al palco, si mescola alle luci, alle musiche, agli abiti che dichiarano identità e menzogna. Sotto la direzione di Longhi, la scena diventa un grande affresco di contraddizioni. Guanciale racconta di un “romanzo-città”, e non è una metafora: Ho paura torero non ha un protagonista, ma un’aria, un’eco, un desiderio che circola.
Il pubblico romano, abituato a drammaturgie solide e rassicuranti, assiste qui a qualcosa di diverso. Daniele Cavone Felicioni, Francesco Centorame, Michele Dell’Utri, Diana Manea, Mario Pirrello, Sara Putignano, Giulia Trivero – sono loro, insieme a Guanciale, a dare corpo a un racconto che vibra anche quando tace. Le parole di Lemebel non vengono addomesticate. Restano appuntite, scandalose, a tratti ingovernabili. Eppure qualcosa accade: il teatro assorbe questa materia e la restituisce con una cura quasi religiosa.
I costumi di Gianluca Sbicca, le luci di Max Mugnai, il design visivo di Riccardo Frati, tutto sembra spingere nella stessa direzione: non rappresentare un’epoca, ma farla esplodere in scena. Senza nostalgia. Senza alibi.
Chi ha conosciuto il Cile degli anni Ottanta o solo ne ha letto, chi ha vissuto le grandi battaglie della sinistra latinoamericana, ritroverà in Ho paura torero la voce di chi non è mai entrato nei libri di storia. La voce di chi ballava mentre fuori infuriava la repressione. Fuori dal teatro, intanto, il dibattito culturale italiano continua a ruotare attorno a identità, appartenenze, bandiere. Dentro, Lemebel suggerisce un’altra strada: quella del corpo, del desiderio, dell’inafferrabile.