Ci sono luoghi che non ti abbandonano mai. Si infilano sotto la pelle, nei polmoni, nei sogni. Per Paolo Cognetti, quel luogo è la montagna. Ma non una montagna qualsiasi: è quella che si stende e si innalza sopra di lui, tra i profili solenni e segreti del Monte Rosa. E da quell’amore indissolubile, intriso di radici, solitudine e stupore, nasce Fiore Mio, il suo primo documentario come regista.
Cognetti ci invita a camminare con lui, fianco a fianco, passo dopo passo, in un racconto che non è solo un’ode alla montagna, ma un dialogo intimo con ciò che scorre e muta, dentro e fuori di noi.
L’estate del 2022 ha lasciato il segno, non solo sulla terra, ma anche sull’anima. Per la prima volta, la sorgente che alimentava la casa di Cognetti a Estoul si è prosciugata. Non c’era più acqua. E in quel vuoto liquido, l’autore ha sentito un richiamo. Non solo a raccontare, ma a custodire, a mostrare. La bellezza che ancora resisteva – e quella che rischiava di perdersi per sempre.
Fiore mio è un labirinto di incontri, sguardi, e silenzi, costruito come le 36 vedute del Monte Fuji di Hokusai: ogni angolo un racconto, ogni prospettiva una scoperta. Il Monte Rosa, nella visione di Cognetti, è molto più di un luogo fisico. È memoria e possibilità, sfida e riposo.
Cognetti non è mai veramente solo. Accanto a lui ci sono compagni di vita e di visione, persone che incarnano la montagna con le loro storie. C’è Remigio, guardiano della memoria della Val d’Ayas, che conosce ogni roccia come un vecchio amico. C’è Arturo, che porta negli occhi l’eco del ghiaccio, un alpinista che ancora, a ottant’anni, si orienta con l’aiuto degli stambecchi. E poi sua figlia Marta, che ha trasformato l’Orestes Hutte nel primo rifugio vegano delle Alpi – una sfida alla tradizione che si mescola con il vento della modernità.
Ma è Sete, lo sherpa venuto dal Nepal, che offre il contrappunto più enigmatico. Sorride, ride, e quando parla dei suoi amici “finiti” sotto una valanga, non dice mai che sono morti. “Sono finiti,” dice. Non è una rassegnazione, né un cinismo. È un modo di stare al mondo, di accettare la montagna per ciò che è: potente, indifferente, viva. E poi c’è Laki, il cane inseparabile, una guida. In una scena, sembra quasi che indichi a Cognetti dove andare, come se sapesse già la destinazione. Come se la montagna parlasse attraverso di lui.
Fiore Mio è un film da ascoltare. Il vento che sussurra, l’acqua che scivola, il silenzio che rimbomba. Paolo Benvenuti, il fonico, ha rifiutato i radio-microfoni, troppo invadenti, troppo vicini. Voleva catturare la distanza, l’eco di un camoscio nascosto o il grido di un falco in lontananza. E poi c’è la fotografia di Ruben Impens, che aveva già incantato in Le otto montagne. Qui, Cognetti gli lascia il pieno controllo, perché la montagna non si può dirigere. È lei a dettare il ritmo, i movimenti. L’obiettivo si allarga per abbracciare il paesaggio, poi si stringe per cogliere un dettaglio: una crepa nel ghiaccio, un’ombra che si allunga su una roccia.
Cognetti, da parte sua, ha voluto sparire. “Volevo che lo spettatore guardasse attraverso di me,” spiega. E così accade: spesso ripreso di spalle, o assente del tutto, l’autore lascia che siano gli alberi, i torrenti, gli animali a occupare la scena.
La colonna sonora è una creatura a sé. Vasco Brondi, amico fraterno di Cognetti, compone un album che è un prolungamento del film. “Ascoltare gli alberi”, il brano principale, è un inno di leggerezza e malinconia, mentre “Tornare a casa” intreccia le parole di Cognetti con una melodia che sembra sospesa tra terra e cielo. La musica non accompagna le immagini; le attraversa, le amplifica.
Ma la vera protagonista resta lei, la montagna. Non è mai ferma, mai immobile. Cognetti, che nei suoi scritti ama le parole come strumenti di precisione, qui fa una scelta consapevole: abolire il verbo “essere”. “Il paesaggio si muove, agisce,” spiega. Un albero non è, ma ondeggia. Un torrente non è, ma scorre. È una montagna viva, pulsante, che non ha bisogno di voce per parlare.
Come sarà questa montagna quando non ci saremo più? La nostra assenza cambierà qualcosa? E noi, possiamo imparare a sparire, a diventare trasparenti come Mia al Mezzalama, o come Sete che si perde tra le vette? Cognetti invita a guardare. Ad ascoltare. A camminare. La montagna, forse, non si ricorderà di noi. Ma noi, mentre la attraversiamo, possiamo scoprire un modo nuovo di essere. Un modo più vicino alla terra, agli alberi, al silenzio. Un modo che, come il titolo del film, sboccia all’improvviso, fragile e perfetto. Un fiore. Un Fiore Mio.
Presentato in anteprima al Locarno Film Festival e al Festival dei Popoli di Firenze, il film arriva al cinema il 25, 26 e 27 novembre.