Fin dall’uscita, Parthenope, l’ultimo film di Paolo Sorrentino, ha fatto parlare di sé, incassando cifre da capogiro e conquistando un seguito inaspettato. Clip patinate, teaser intriganti e immagini che sembrano prese direttamente da un sogno: Parthenope non è solo un film, è diventato un fenomeno virale.
Al centro c’è Parthenope, Celeste Dalla Porta, una giovane napoletana di classe borghese, immersa in un mondo di perfezione visiva e isolamento emotivo. Il trauma familiare che la perseguita e la solitudine che la accompagna costituiscono i pochi tratti distintivi di una personalità che però rimane quasi evanescente. La Napoli che Sorrentino costruisce intorno a lei è un luogo di bellezza esibita, una città eternamente soleggiata e distante, in cui Parthenope vaga senza mai trovare un punto di contatto.
Il manierismo di Sorrentino è palpabile, quasi opprimente. Ogni scena sembra voler gridare la propria bellezza, il proprio stile, come se l’obiettivo non fosse raccontare una storia ma piuttosto impressionare con l’estetica. Napoli diventa un palcoscenico astratto, luminoso e statico, dove tutto è fermo in una sorta di immobilità glaciale. Parthenope, che da adulta ha il volto dell’attrice Stefania Sandrelli, si muove in questo spazio come una statuina di porcellana, ogni suo gesto è studiato, ogni sguardo misurato, ma il risultato è che non arriva mai davvero al cuore. Sorrentino sembra quasi voler preservare la sua protagonista da ogni graffio, da ogni sbavatura, facendola fluttuare su uno schermo che le dona una bellezza rarefatta, ma che allo stesso tempo la distanzia dal pubblico.
Questo distacco è amplificato da un tono onirico e trasognato che domina il film, uno stile che Sorrentino padroneggia con abilità, ma che qui sembra essere applicato per il puro gusto di mostrarsi. Parthenope non è tanto un personaggio quanto un simbolo, una figura che sembra più funzionale alla visione estetica del regista che alla costruzione di un legame emotivo con lo spettatore. E sebbene ci siano momenti di indiscutibile fascino visivo, sembra che il film manchi di sostanza, come un’architettura sontuosa costruita senza fondamenta solide. Il pubblico è così lasciato a contemplare Parthenope come una musa distante e intoccabile, senza mai riuscire a entrare davvero nel suo mondo interiore. La bellezza del film diventa quasi un filtro, una barriera che impedisce di raggiungere l’emotività più cruda e autentica.