Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, in questi ultimi anni, hanno costruito un rapporto profondo con Torre Annunziata, un piccolo centro tra il Vesuvio e il mare, e da lì non se ne sono mai andati. È come se ogni film realizzato li portasse, inevitabilmente, al successivo. Prima il documentario Butterfly, sulla pugile Irma Testa; poi Californie, con protagonista Jamila, una giovane ragazza marocchina incontrata per caso sul set del loro documentario.
E ora arriva Vittoria, il loro terzo film, una storia che nasce da una pausa pranzo, da una conversazione intima con Jasmine, una donna sui quarant’anni che aveva tutto: un marito, tre figli maschi, una casa, un lavoro. Ma sentiva, inspiegabilmente, che non poteva fare a meno di avere una figlia femmina.
Come può un desiderio così apparentemente semplice – una bambina – diventare il motore di un film così complesso? Eppure, Vittoria è esattamente questo: un intreccio sottile tra il personale e l’universale, tra una vicenda di famiglia e le tensioni sociali che accompagnano un processo come l’adozione internazionale. Quello che colpisce subito è l’umanità cruda della protagonista, interpretata dalla stessa Jasmine, che ha deciso di raccontare in prima persona la sua storia, senza mediazioni, senza filtri.
I registi ci guidano in una doppia dimensione: da un lato c’è il racconto della donna determinata a sfidare ogni logica per inseguire il suo sogno; dall’altro, c’è la riflessione sul cinema stesso e su come sia possibile trasmettere, attraverso l’immagine, il tormento interiore di una madre disposta a tutto pur di adottare una figlia.
Durante la lavorazione di Californie, Jasmine era già entrata in contatto con i registi, ma è stato solo in seguito che la sua storia personale ha iniziato a delinearsi come un possibile nuovo film. “Quando ci ha raccontato della sua decisione di adottare per avere una figlia femmina, ci siamo guardati e abbiamo capito che avevamo tra le mani una storia potente”, racconta Casey Kauffman.
Da quel momento, i registi hanno iniziato a registrare ore di interviste con Jasmine, visualizzando nella loro mente scene, dialoghi e atmosfere che sarebbero poi diventati la struttura portante di Vittoria.
Il film si sottrae alle regole classiche del cinema sull’adozione. Non c’è il tipico arrivo del figlio in famiglia, né la solita ricerca dei genitori biologici. Quello che vediamo, invece, è un percorso accidentato e pieno di ostacoli: la decisione di adottare, le tensioni che emergono nel matrimonio, le difficoltà burocratiche, le incomprensioni con chi la circonda. Jasmine appare quasi consumata dal suo desiderio, una donna sola in una battaglia contro il mondo. Come può una madre avere così tanto, eppure sentirsi incompleta?
I protagonisti si muovono in uno spazio liminale, tra il reale e il finzionale. La cinepresa diventa una testimone silenziosa, catturando ogni sfumatura, ogni esitazione, ogni emozione vera che emerge. .Cassigoli e Kauffman non hanno chiesto a Jasmine e Rino di “interpretare” se stessi, ma di vivere la loro storia davanti alla macchina da presa.
Il set si è trasformato in un luogo dove i conflitti irrisolti della coppia avrebbero trovato spazio. “Non è stato facile”, ricorda Jasmine, “rivivere quei momenti è stato doloroso, ma sapevo che era importante. Volevo che le persone vedessero cosa significa davvero affrontare l’adozione, con tutte le paure e i sacrifici che comporta”.
Quando Jasmine tenta di spiegare ai suoi clienti del salone di parrucchiera il motivo per cui vuole adottare una bambina, le sue parole sembrano rimbalzare contro un muro di incomprensione. Eppure, c’è qualcosa di teneramente tragico nel suo tentativo di far capire agli altri un desiderio che solo lei sembra comprendere. La grande forza di Vittoria sta proprio in questo: nel mostrare senza giudicare, nel lasciare che la storia si sveli senza forzature.
Cassigoli e Kauffman raccontano di aver registrato ore e ore di conversazioni con Jasmine prima di iniziare le riprese. Durante queste interviste, hanno cominciato a visualizzare le scene, a immaginare i dialoghi e le atmosfere. Il film è nato organico, si è evoluto direttamente dalla realtà, come se ogni parola di Jasmine fosse una traccia da seguire per costruire una narrazione più ampia. Un processo che ha permesso al film di avere quella verità documentaristica, senza mai perdere la struttura e la tensione tipiche della finzione.