Con *Russians at War*, lungometraggio presentato fuori concorso al Festival di Venezia, la documentarista Anastasia Trofimova tenta di rompere tabù — speculari e paralleli tra Occidente e Oriente — raccontando i suoi sette lunghi mesi con i soldati russi vicino al fronte ucraino, nella regione annessa del Donetsk. È un lavoro non autorizzato ufficialmente, certamente non embedded, all’interno di un battaglione russo del reparto sanitario. Il film offre uno sguardo quasi inedito su un conflitto per chi ha ascoltato solo i notiziari russi o i media occidentali: senza censura, i soldati riflettono, si lamentano senza il timore di punizioni disciplinari. Di 900 soldati, ne sono rimasti vivi solo 300, perdendo in meno di un anno due terzi degli effettivi. Si tratta di una rara visione di un esercito spesso mal organizzato, da quando, nelle prime ore del 24 febbraio 2022, le truppe russe invasero l’Ucraina.
In quei giorni, la regista russo-canadese Anastasia Trofimova, produttrice di news per l’ufficio di Mosca della Canadian Broadcasting Corporation, si trovava sul confine tra Russia e Ucraina quando si diffuse la notizia dell’invasione. Il suo precedente lavoro, *Songs of Slow Burning Earth*, era un ritratto collettivo degli ucraini in fuga dalla guerra. L’“operazione speciale”, ossia l’invasione che doveva portare a una rapida vittoria, si è invece trasformata in un complesso di disastri militari, crimini di guerra e stalli mortali per la conquista di pochi chilometri di territorio nemico. “Siamo il secondo esercito al mondo, figurati il quarto” è la sarcastica battuta di un soldato, in un viaggio privo di coordinate e verso un assalto senza supporto. Tutto raccontato in un documentario imprescindibile per chi vuole comprendere non solo questo conflitto, ma anche la complessità della guerra moderna e contemporanea.
Il legame tra l’Ucraina e l’Occidente si è palesato il giorno stesso in cui il governo insediato dopo le proteste di piazza Maidan emise un mandato di cattura per l’allora presidente Viktor Janukovyč, poi fuggito in Russia. È importante ricordare che, dal 2014 al 2022, vi sono stati almeno quindicimila morti, principalmente nelle regioni russofone dell’est. Oggi assistiamo a una guerra per procura tra Russia e Occidente, combattuta attraverso l’Ucraina.
Si è sempre tesi a un’idealizzazione contraria, dove l’altro, il nemico, diventa un mostro, rappresentante del Male Assoluto: una narrazione folle e perversa. In Russia, questi soldati sono “eroi che non muoiono mai”. In Occidente, sono spesso definiti criminali di guerra. Alcuni sono ex cittadini di un passato comune sovietico, ucraini che si considerano vittime della repressione neonazionalista ucraina sulle regioni russofone. Ma molti soldati ammettono di combattere solo per denaro e appaiono sempre più disillusi. Gli eredi della gloriosa Armata Rossa, che ottant’anni fa cambiò le sorti della Seconda Guerra Mondiale, sono ora semplici epigoni di una narrazione riproposta con le stesse modalità retoriche, ma all’interno di una società consumistica, che vive certamente di un surplus di patriottismo, ma compartimentato per fasce sociali. È anche una guerra di classe, dove la “carne da cannone” viene reclutata con maggior successo nelle regioni più povere e degradate del Paese. Si sta raggiungendo il 100% dei riservisti in regioni come la Cecenia (reddito pro capite annuo 2.170 dollari), il Kabardino-Balcaria (2.670 dollari), la Buriazia (3.650 dollari) e l’Altaj (3.730 dollari). Si tratta di popolazioni con bassi tassi di scolarità, quindi più vulnerabili alla propaganda patriottica dei mass-media e dei social network.
Sappiamo che il 69% dei russi non è mai stato all’estero e oltre il 50% non ha neppure il passaporto. Nelle regioni più povere, la mancanza di passaporto supera l’80%. La situazione cambia radicalmente nelle grandi città come San Pietroburgo, dove solo il 18% dei riservisti ha risposto alla chiamata per la mobilitazione. Strati della società che potremmo definire “ceto medio”, e che condividono “valori occidentali”, hanno deciso di non combattere. Come già avvenuto per i contractors e i “volontari” reclutati nei mesi precedenti, la mobilitazione parziale è stata selettiva in termini di classe. Non è un caso che la maggior parte dei mobilitati (secondo i dati ufficiali 230.000) sia stata attratta dalla possibilità di ricevere paghe da 200.000 rubli al mese (rispetto alla media nazionale di 50.000) e moltissimi benefit, come la possibilità di formazione professionale e di acquistare una casa a tassi agevolati nel dopoguerra. Questo fa parte di un gigantesco macchinario arrugginito, che evoca la gloria di un passato socialmente cancellato.
Il film include solo una scena girata in Russia: bambini che cantano una canzone patriottica mentre marciano nel corridoio scolastico, guidati da un soldato. Ma la forza maggiore di questo documentario è la normalità, termine ambiguo, che nel dramma della guerra rappresenta un tentativo di smascherare l’essenza bugiarda del conflitto. La finzione ha spesso trattato questo tema, al punto da costituire una peculiarità nel rapporto tra cinema e guerra. Tentare di “leggere” i processi mentali e collettivi che hanno reso accettabili operazioni belliche in Russia è utile anche a comprendere lo sforzo industriale bellico neoligarchico. Nel documentario, vediamo uomini di fronte alla paura, all’orrore e alla morte, in un claustrofobico affratellamento di trincea, ma in perpetuo movimento. Il conflitto coinvolge macchine più complesse, con meno operai e più tecnici, dipendenti da altri tecnici nelle retrovie del potere putiniano. Il mix di arretratezza e tecnologia, subito anche dai propri comandanti, scatena spesso, per incompetenza, crolli psicologici. Il nemico non si vede mai: potrebbe essere dietro o davanti.