Sorellanza tra tutte le donne, ma in particolare la solidarietà tra sorelle nel riscatto di un comune destino, è questo Manas, il primo, e riuscito, lungometraggio di Mariana Brennand, presentato ieri mattina in anteprima mondiale alle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia. Girato all’Isola di Marajo, nella foresta pluviale amazzonica, Manas, ovvero “Sorelle”, propone al grande pubblico il dramma dei e delle minori abusate in casa dai padri. Abusi che, nel senso comune, sono considerati quasi usi, tradizioni, difficili da estirpare. Il film è stato realizzato a partire da una lunga ricerca documentaristica svolta in Amazzonia dalla regista. Nei titoli di coda si ringrazia il coraggio delle manas di Marajò per i loro racconti e si dedica il film “a tutte le donne che hanno subito abusi o violenze”.
Una famiglia come tante
La protagonista di Manas è Marcielle, detta anche Tielle (Jamilli Correa) ha 13 anni e vive su una casa a palafitta sulle rive del fiume con la sua famiglia: padre, madre, una sorellina, due fratelli e un terzo in arrivo. Una famiglia come tante, che vive di stenti, ma che appare un luogo protetto. Tielle non manca ogni giorno di guardare con nostalgia la fotografia della sorella maggiore Claudia, immaginando di poter seguire il suo destino, “trovando un brav’uomo”, come le dice la madre, e andando a vivere altrove, forse sulle chiatte che trasportano container e camion. Prova anche a mettere in atto un piano, che fallisce miseramente, per inseguire questo sogno, fingendosi maggiorenne all’ufficio per ottenere la carta d’identità. Ma la vita di Tielle, alle soglie dell’adolescenza, è comunque allietata da cose semplici: giocare con la sorellina, andare a scuola, parlare con le amiche, aiutare in casa. Il racconto procede per primi piani ravvicinati, indagando così le emozioni e i sentimenti che attraversano questo ristretto gruppo di persone, con la camera che si avvicina in maniera quasi intima, facendosi largo tra la fitta vegetazione della foresta..
“Certi usi non si possono cambiare”
Tielle è fiduciosa, in gamba, è la figlia grande di casa, ha un rapporto sempre più affiatato con il padre, Marcilio (Rômulo Braga) e gli sguardi spaventati, ma soccombenti, della madre Danielle (Fátima Macedo) preannunciano il dramma. Marcilio tesse la sua tela, usa un pretesto perché sia Tielle, e non la madre, a dormire con lui, finché, dopo qualche tempo, abusa della figlia e la sottomette ai propri istinti nel silenzio attonito della famiglia in cui tutto resta sottotraccia. Tielle cerca supporto tra amiche e conoscenti, ma realizza che ciò che le è capitato non è che una consuetudine. La madre, una impassibile maschera di dolore, che a sua volta ha subito la stessa violenza dal proprio padre, sillaba con un filo di voce: “Certi usi non si possono cambiare”. L’interiorità di Tielle viene stravolta, l’orrore di quanto subisce la porta a cercare disperatamente relazioni con uomini che la possano sottrarre da casa, peggiorando ancora di più la propria situazione. Nonostante l’intervento di sorellanza e protezione di una brava poliziotta e l’allontanamento da casa, la storia la rivede sempre tornare sotto il dominio del padre, il quale considera quasi un diritto di famiglia, ancestrale e quindi acquisito, il tipo di rapporto a cui sottomette la figlia. Alla fine sarà proprio Tielle, per poter essere al fianco della sorella piccola, a cambiare il corso, interrompere l’uso del corpo delle figlie e mettere fine a questo strazio.
Un progetto di ricerca
Spiega la regista che durante un progetto di ricerca documentaria nei remoti villaggi della foresta pluviale amazzonica ha incontrato “donne che avevano subito traumi immensi fin dalla tenera età, subendo abusi sessuali all’interno delle loro case e sfruttate sessualmente su chiatte commerciali, con pochissime possibilità di fuga”. Riporta l’Osservatorio Diritti che secondo il Forum Brasiliano di Sicurezza pubblica nel 2022 risultavano 100 minori stuprati al giorno, maggior parte dei quali bambine.
Ricorda la regista che il #MeToo e altri movimenti per i diritti delle donne hanno permesso di rompere il silenzio e denunciare gli abusatori in tutto il mondo. “Ma che dire di queste donne invisibili di cui non sappiamo nemmeno l’esistenza? Attraverso Manas, voglio dare voce a queste donne e ragazze che altrimenti non sarebbero mai state ascoltate, onorando le storie che hanno condiviso con me. Vedo il cinema come un veicolo convincente per la trasformazione sociale e politica e spero che Manas sia in grado di mobilitare l’empatia degli spettatori e rompere l’enorme tabù che circonda questa difficile realtà che colpisce tutte noi donne”.
Mariana Brennand e Manas
Dopo essersi laureata in cinema alla UCSB, Marianna Brennand è tornata in Brasile. Ha realizzato un documentario sul suo prozio Francisco, artista brasiliano riconosciuto a livello mondiale per le sue opere in ceramica. Francisco Brennand nel 2012 ha vinto il premio sia per il miglior documentario brasiliano sia per il miglior film brasiliano al São Paulo Film Festival. In precedenza, nel 2007, Brennand ha diretto un altro documentario, O Coco, a Roda, o Pnêu e o Farol. Manas segna il debutto alla regia di un lungometraggio. Il film è prodotto da Carolina Benevides e dalla stessa Mariana Brennand per la brasiliana Inquietude, e coprodotto da Luis Galvão Teles per la portoghese Fado Filmes e Beto Gauss e Francesco Civita per Pródigo, Globo Filmes e Canal Brasil, con il sostegno di Ancine, FSA-BRDE e ICA portoghese.