I giovani del Giffoni sono stati conquistati dal El Ladrón de perros (Ladro di cani, The Thief of Dog) di Vinko Tomicic proiettato oggi in anteprima italiana alla Sala Truffaut. “Sono molto contento di questa esperienza – ha detto il regista cileno a The Spot.news – ho trovato un pubblico molto sensibile e attento”. Nei prossimi programmi di Tomicic, un nuovo film con lo stesso protagonista, l’esordiente Franklin Aro. Il film è passato in concorso nella sezione Generator +16.
Il film è stato presentato in anteprima mondiale al Tribeca Film Festival a New York e sempre in concorso alla 39esima edizione del Festival di Guadalajara in Messico. El Ladrón de perros è il frutto di una coproduzione internazionale che vanta la presenza dell’Italia e della Movimento Film di Mario Mazzarotto con Francesca van der Staay.
Oltre all’Italia ci sono Bolivia, Cile, Messico, Ecuador e Francia. I due attori protagonisti sono l’esordiente Franklin Aro, che interpreta Martìn, un adolescente, orfano di madre e senza padre dalla nascita, che desidera fortemente essere adottato dal Signor Navoa, l’attore e regista cileno Alfredo Castro, al quale ruba di nascosto il cane lupo, sperando di potersi conquistare i suoi favori fingendo di essere colui che glielo ritrova, ma la storia si svilupperà diversamente.
Come sta andando il film?
Sono molto contento per la selezione al Giffoni ed è stata una esperienza nuova per me incontrare il pubblico giovanile. Un pubblico molto sensibile, hanno fatto molto domande, sull’adolescenza, su Martìn, sulla relazione tra i personaggi.
Come è nata la storia il personaggio di Martìn?
Ho sempre avuto l’intenzione, il desiderio, di lavorare sull’essere orfano. Nel mio precedente film ho lavorato sull’assenza materna e paterna. E questo desiderio nasce da un ricordo di infanzia.
Della sua infanzia?
Non un ricordo personale, ma il ricordo di un bambino vicino di casa, che lavorava fuori e cercava di mettere in piedi la sua vita. La costruzione dell’immagine creativa si è consolidata in me attorno al ragazzino che si guadagna la vita facendo il lustrascarpe, mettendosi ai piedi, pulendo i piedi delle persone, quando ho realizzato che in Bolivia questo lavoro è molto popolare tra i ragazzini.
Come ha scelto l’interprete di Martìn, il protagonista?
Abbiamo realizzato molti casting e abbiamo fatta una ricerca specifica rivolta alla comunità dei lustrascarpe affiggendo volantini nelle zone in cui vivono e lavorano. Così abbiamo incontrato il lustrascapre Franklin Aro e quando l’abbiamo visto, era lui, Martìn.
Ha un volto molto particolare. Cosa l’ha colpita di più?
Lo sguardo. Tutti i giovani lustrascarpe indossano un passamontagna per non essere riconosciuti e non essere discriminati. Quindi gli occhi erano una parte fondamentale per “Il ladro di cani”. E lo sguardo di Martìn era molto profondo e inesplorabile.
Martìn, nella sua ricerca di un padre, medita di rapire il cane per ottenere la riconoscenza del proprietario, il Signor Navoa. Nel restituirglielo poi, sembra cambiare piani per rimanere dentro la relazione affettiva con lui. Era tutto previsto?
Sì, il potere narrativo della sceneggiatura è costruito proprio sui legami che si creano in questa tripla relazione, un triangolo, in cui il cane è come l’intermediario di una relazione che può nascere e andare in direzioni diverse, fino a che davvero non si percepiscono i segnali che una relazione affettiva stia davvero nascendo tra il Signor Navoa e Martìn e tra Martìn e il cane.
Veniamo all’immagine della città, La Paz. Si percepisce a distanza la violenza della città, ma nello stesso tempo questi ragazzi vi si muovono con grande libertà e nelle periferie più disperate è come se fossero a casa.
Intanto, per quanto sia misero, il lavoro è molto importante per questi ragazzi e ci sono regole precise. Ci sono due zone dove lavorano gli shoe shiner. Una, sempre la stessa, dove si trovano prevalentemente gli adulti, mentre i ragazzi si spostano in molte altre zone di tutta la città. Per questo si muovono a loro agio nella città. Hanno però un “loro” posto, dove si rifugiano e che è il luogo della loro libertà, il cimitero delle automobili. Un luogo che è sì luogo di libertà, di questa infanzia e adolescenza, ma è anche luogo dell’abbandono, metafora della loro vita.
Il Signor Navoa, interpretato dal grande attore cileno Alfredo Castro, è un anziano e misterioso sarto, che Martìn elegge a suo probabile padre, ma che non sembra avere le caratteristiche di una figura paterna. Perché questo ritratto?
È anche questa una figura che rientra nel quadro di inquietudine in cui si muove Martìn. Martìn desidera a tutti i costi avere un padre, un’adozione, e quindi con la mente di un bambino, nell’ultima fase della sua infanzia, per soddisfare questo desiderio costruisce un’idea su una persona che è in realtà a sua volta fredda e senza speranza di avere una famiglia. A esplicita domanda di Martìn riguardo il metter su famiglia, il sarto ammette di non averci mai pensato. Questo non fa cedere il ragazzo nella sua disperata volontà di trovare un genitore e in realtà, con l’arrivo di Martìn, qualcosa inizia a farsi sentire nel cuore dell’anziano sarto.
Progetti per oggi e il futuro?
Il prossimo mese girerò un corto dal titolo “Solo la muerte”, ambientato in Cile, un noir horror e sto lavorando a un nuovo lungometraggio, un road movie, il cui protagonista sarà Franklin Aro.