L’Origine del Mondo, opera in tre atti scritta e diretta da Lucia Calamaro, ci trascina in un intricato labirinto della mente umana, ispirato dai concetti freudiani e intriso di un senso pervasivo di isolamento psicologico.
Il Teatro Argentina non è un luogo ma un insieme di relazioni. Il primo atto si apre su uno sfondo bianco che non offre alcun riferimento tangibile, eccetto un singolo oggetto: un frigorifero, emblema di solitudine e depressione, una zona senza confini in uno spazio vuoto. La luce che esce dal frigo, nel buio totale, diventa lo strumento narrativo per esplorare la disperazione interiore dei personaggi.
Calamaro ha già un’idea chiara degli attori che interpreteranno i ruoli. Le tre protagoniste, che mantengono in scena i loro veri nomi, condividono lo stesso ambiente familiare ma lo vivono in modi diversi. Concita (De Gregorio), figlia di Lucia Mascino e madre di Alice Redini, si è isolata dal mondo esterno, forse a causa della sua incapacità o riluttanza a conformarsi agli standard imposti dalla società o dalla famiglia.
Concita, non si rivolge al frigorifero in cerca di qualcosa di gustoso da mettere nello stomaco. La sua ricerca è più profonda. Aprire il frigorifero è un atto simbolico, un’incursione nel microcosmo della sua psiche. La roba da mangiare sta lì a sfamare un bisogno primordiale di connessione con l”origine” di sé e del proprio senso di disagio nel mondo. Intorno a questo elettrodomestico, Concita e la figlia Alice si scambiano dialoghi inutili, non c’è vero ascolto dell’altra, e questo non fa che aumentare la distanza tra loro.
Nel secondo atto, sul palco una luce blu dirige lo sguardo del pubblico verso una lavatrice in stile anni 50. Il rumore dei panni che girano all’interno diventa metafora della circolarità della parola di sofferenza che non trova una via di fuga. Ed qui che fa il suo ingresso, Lucia, una donna di classe molto borghese che lotta per mantenere un’apparenza di normalità.
Con determinazione e ironia tenta di strappare la figlia da quello stato di apatia. Ma in una domenica in pigiama, si respira solo noia e tragedia. E’ lei l’unico punto di riferimento per Alice. Una ragazza che eredita l’apatica natura della madre, ma che cerca di reagire discutendo delle sole cose che, nella sua innocente semplicità, sembrano davvero contare: il comportamento degli uccelli e il suo compleanno.
La terza tappa del viaggio porta verso un incontro con l’analista. E’ sempre Alice Rondini che si trasforma da figlia a medico della madre. Una figura enigmatica incapace di offrire risposte soddisfacenti ai suoi interlocutori. Qui emerge il tema di una scienza tormentata dai suoi problematici limiti e dalla sua contraddittorietà nel suo strenuo tentativo di comprendere la mente umana.
Di fronte all’incomunicabilità verbale tra i diversi personaggi (madre-figlia, nonna-figlia, dottoressa-paziente) non c’è altra soluzione che lasciare spazio al silenzio dei pensieri. Il pubblico si trova alle prese con un flusso rumoroso di frustrazione, impotenza, e distorsione della realtà. Le musiche sono assenti per tutta la durata dello spettacolo, così come gli uomini, a tratti menzionati nei dialoghi ma inesistenti fisicamente.