Le merci hanno libertà di movimento, più degli esseri umani. Trasformare un uomo in merce, per esempio in opera d’arte, significa assicurargli libertà e la possibilità di uscire dal proprio paese. In base a questo assunto, tutto da dimostrare, si salda il patto tra un artista e un rifugiato nel film “L’uomo che vendette la sua pelle”, della pluripremiata regista tunisina Kaouther Ben Hania, nelle sale italiane da pochi giorni, distribuito da Wanted Cinema. Si tratta del primo titolo tunisino ad aver ottenuto una candidatura all’Oscar come miglior film internazionale.
La trama è ispirata alla celebre opera d’arte vivente Tim 2006-2008, dell’artista belga Wim Delvoye, al quale la stessa regista aveva dedicato un documentario e che ha anche un cameo nel film. L’incontro con quest’opera vivente, tatutata sulla schiena del tatuatore svizzero Tim Steiner, aveva talmente colpito Kaouther Ben Hania da costituire il perno di una sceneggiatura nella quale il tema dell’arte contemporanea e dei conflitti contemporanei si sono intrecciati.
Sam Ali (interpretato Yahya Mahayni) è un giovane siriano di belle speranze, che, prima del confitto, si innamora, ricambiato, di Abeer (Dea Liane) ragazza borghese di buona famiglia. L’unione viene osteggiata e Abeer è promessa sposa di un diplomatico con destinazione Bruxelles. Abeer resta nel cuore di Sam Ali che, perseguitato, espatria in Libano con l’aiuto della sorella. E qui che, ora rifugiato siriano, Sam Ali entra in contatto con il mondo delle gallerie d’arte e, attraverso la manager Soraya (Monica Bellucci), con un mefistofelico artista di fama mondiale Jeffrey Godefroi interpretato da Koen De Bouw.
Pur di avere i mezzi per essere libero e raggiungere Abeer, Sam Ali accetta un patto sulla sua pelle: la realizzazione di un’opera d’arte di Godefroi sulla sua schiena, diventando così lui stesso un capolavoro internazionale vivente, da esporre in tutto il mondo, ma in particolare a Bruxelles, dove abita la sua amata.
Ben presto Sam si renderà conto delle implicazioni della sua scelta e di aver messo in gioco più della sua pelle. E’ diventato un paradosso vivente, come previsto dal suo Pigmalione: da uomo libero a rifugiato, da rifugiato a merce, opera d’arte, che in quanto tale può viaggiare, ma non può disporre di sé. Di paradosso in paradosso, Sam Ali dovrà cercare la propria via d’uscita.
“L’Uomo che Vendette la sua Pelle è un progetto nato dall’incontro di due mondi – ha spiegato la regista – quello dell’arte contemporanea e quello dei rifugiati politici. Da un lato abbiamo un mondo fatto di elite in cui libertà è la parola chiave, dall’altro un mondo fatto di sopravvivenza influenzato dagli eventi attuali in cui l’assenza di scelta è la preoccupazione quotidiana. Viviamo in un mondo in cui le persone non sono uguali. Nonostante tutti i discorsi sull’uguaglianza e i diritti umani, i contesti storici e geopolitici sempre più complessi fanno sì che ci siano inevitabilmente due tipi di persone: i privilegiati e i dannati”.
Una grande cura estetica e fotografica, dovuta alle ricerche in campo artistico da parte della regista, e una ottima interpretazione da parte dei protagonisti fanno di L’uomo che vendette la sua pelle un film coinvolgente, che mette di fronte alle grandi domande, mantenendo un buon ritmo e una chiave giocosa.
La pellicola, presentata alla 77° Mostra del Cinema di Venezia, dove ha ottenuto il premio Orizzonti per la Miglior Interpretazione Maschile e il premio per l’inclusione Edipo Re. Ora la sfida per il premio Oscar.
Kaouther Ben Hania è nota alla scena cinematografica per aver diretto Beauty and the Dogs, presentato in anteprima alla selezione ufficiale del Festival di Cannes Un Certain Regard nel 2017; Challat of Tunis, il suo primo lungometraggio, ha aperto la sezione ACID al Festival di Cannes 2014 e Zaineb hates the Snow è stato presentato in anteprima al Locarno Film Festival 2016 e ha vinto diversi premi.