Al termine della proiezione riservata a pubblico e talents in Sala Grande ci sono stati 10 minuti di applausi. Tra i giornalisti italiani circola già come il grande favorito, tanto che il film – documentario di Rosi è stato già invitato a tutti i principali festival del mondo dopo Venezia, ovvero Toronto, London, Tokio, Busan, Telluride e New York Film Festival – confermando l’interesse degli USA verso il cinema di Rosi, dopo la Nomination agli Oscar con Fuocoammare.
Il film esce oggi in tutte le sale italiane e presto sarà oltreoceano. Rosi è anche il solo cineasta, italiano e non, ad aver vinto un Leone d’Oro con un documentario “Sacro Gra” nel 2103 e possiamo dire che il registro stilistico è sostanzialmente invariato.
Normalmente i documentari dovrebbero dirci, o insegnarci, qualcosa in più sull’argomento che non sappiamo. In questo caso Rosi preferisce mettere uno scarnissimo cartellone iniziale a ricordarci che ha impiegato quasi tre anni a girare questo lavoro trascorrendoli in Medio Oriente, precisamente ai confini di Iraq, Kurdistan, Siria e Libano, lontano dalle zone di guerre. Una scritta bianco su nero ci informa che questi sono territori martoriati dalla notte dei tempi e che l’avidità, la cattiveria e l’ingordigia umana fanno il resto. Ovvero una catena inenarrabile di guerre civili, dittature feroci, invasioni e ingerenze straniere, sino all’apocalisse omicida dell’ISIS.
Potrebbe bastare? Sì e no. Da quel momento sullo schermo arrivano una serie di immagini, di quadri, anche esteticamente molto belli, di volti, di lamenti, di voci, di azioni, di tempi, di pianti, di straniamenti e di ritorni. Una notte infinita, appunto, come il titolo. E tutto è sempre al presente, come se quell’attimo in cui Rosi riprende fosse eterno, incastonato nella storia e fuori dal tempo nello stesso istante. Nessuna spiegazione in più, nulla, straniante e probabilmente giusta allo stesso tempo. Ma. Si resta come se mancasse qualcosa. O forse no. Devo ancora rendermene conto davvero.
Dichiara Gianfranco Rosi – Leone d’Oro con Sacro Gra, Orso d’Oro e Nomination agli Oscar con Fuocoammare: «Ho cercato di raccontare la quotidianità di chi vive lungo il confine che separa la vita dall’inferno. Durante questi tre anni ho incontrato le persone che vivono nelle zone di guerra. Ho voluto raccontare le storie, i personaggi, oltre il conflitto. Sono rimasto lontano dalla linea del fronte, ma sono andato laddove le persone tentano di ricucire le loro esistenze. Nei luoghi in cui ho filmato giunge l’eco della guerra, se ne sente la presenza opprimente, quel peso tanto gravoso da impedire di proiettarsi nel futuro».
I suoni della guerra sono infatti lontanissimi, qualche bagliore di bomba, qualche mitragliata di sottofondo, non c’è mai il senso del pericolo perchè nelle vite di questi personaggi tutto è già compiuto. La madre che piange il figlio ucciso dentro al carcere dove è stato torturato è forse il quadro che ci rimane più impresso, quel lamento straziante così profondo e dignitoso che accomuna tutte le madri del mondo cui la guerra o la vita hanno strappato un figlio. Una tortura doppia inflitta dalla guerra, la cui inutile stupidità è sempre il leit motiv di ogni capoverso di Notturno.
Così questo territorio martoriato è ogni territorio in cui la forza violenta viene usata per dirimere le controversie, ogni campo profughi arabo potrebbe essere africano o italiano. E la vita delle persone scorre comunque, con piccoli espedienti, con atroci sofferenze, con la triste rassegnazione di voler capire e adeguarsi ma anche sopravvivere. Capire, questo è il dilemma. Ci provano dei malati psichiatrici ricoverati in un ospedale a dare un senso a tutto questo mettendo in scena una rappresentazione scritta dal loro tutore psicologo. “Possa anche la mia terra avere un Dio” recitano gridando a più riprese dal palco. Quale terra? Quale Dio?
Non abbiamo risposte, non le ha nessuno. Dobbiamo trovare soluzioni, umane, pietose, compassionevoli. Ma per ora non se ne vedono.