Vincitore nel 2017 del premio Fipresci nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes e designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI), Tesnota di Kantermir Balagov, ventiseienne, già studente e assistente di Alexander Sokurov, è non solo una storia riguardante un rapimento ma anche un film sulla questione della diaspora ebraica a Nalchik, nel Caucaso del Nord, in Russia. Il film è ambientato negli anni novanta nei luoghi di nascita del regista, poco lontani dalla Cecenia, in tempi in cui il primo conflitto si era appena concluso e il secondo stava per iniziare. Ilana, Darya Zhovner, una ragazza ventiquattrenne, figlia maggiore di una famiglia di ebrei russi, lavora nel garage di suo padre per aiutarlo a sbarcare il lunario. Una sera, la sua famiglia allargata e gli amici si riuniscono per celebrare l’imminente matrimonio di suo fratello minore David. Più tardi quella stessa notte, la giovane coppia viene rapita ed è avanzata una richiesta di riscatto. In questa enclave ebraica molto unita coinvolgere la polizia è fuori questione. Il dramma crea le premesse per l’inizio di una deriva familiare che metterà ogni membro di fronte ad una scelta che è soprattutto morale.
Il rigore estetico usato dal regista nei colori e nelle inquadrature come forma di introspezione psicologica si trova in una sequenza cruciale: la trasmissione per mezzo di un VHS di immagini d’archivio estremamente violente che mostrano miliziani ceceni sgozzare due prigionieri russi che implorano invano di vivere. Bagalov spiega di aver visto il video con amici quando avevano circa 12/13 anni. “E’ stata la prima volta che mi sono confrontato con la morte, che ho visto qualcuno morire lentamente. Eravamo come ipnotizzati, incollati a quelle immagini girate allora, nel 1998, in un villaggio del Daghestan. Non eravamo alimentati da sentimenti antirussi, non abbiamo provato alcun piacere, ma non riuscivamo a distogliere gli occhi. Le reazioni dei personaggi quando guardano il nastro sono modellate sulle reazioni mie e dei miei amici”.
Il linguaggio visivo del film, nelle sale dal primo agosto grazie a Movies Inspired è sorprendentemente ruvido. Il formato 4:3 ci fa entrare in una società chiusa retrograda minata tanto da codici tribali quanto dall’imminente e schiacciante modernità. Le tensioni tra i vari gruppi religiosi ed etnici svolgono un ruolo in background, Balagov li usa principalmente come fattore complicante in quello che è già un miscuglio di emozioni contrastanti ed incertezze. Tutti i personaggi sono legati da una camicia di forza: ideologica, sociale, tradizionale, geografica o familiare. A fare da ponte tra passato e presente, tra ebrei e musulmani, tra rivendicazioni autonomiste contro la Russia, è Ilana, divisa tra il desiderio di ribellarsi e la paura della solitudine.
Il regista non è così affascinato dal lato tecnico del rapimento, che viene quasi liquidato come nota a piè di pagina. Ciò che lo interessa di più è infatti l’impatto emotivo che il dramma ha sulla famiglia. Cosa si è disposti a fare per salvare un proprio caro? Chiaramente si farebbe di tutto per salvare una persona cara, ma ciò che il regista intende approfondire è proprio quel che le persone non sarebbero disposte a fare. L’assioma in base al quale devi sacrificarti per salvare una persona amata, non è un l’oggetto di una riflessione, ma viene sbattuto in faccia allo spettatore dall’inizio alla fine.