“Non siamo nati ieri, se c’è da morire dobbiamo farlo con una certa eleganza”. Parola di Giovanni Lindo Ferretti alla presentazione del libro scritto con Franco Arminio, “L’Italia profonda. Dialoghi dagli Appennini”, edizioni Gog. Un pamphlet a due voci dedicato all’Italia appenninica, patria di entrambi. Ottanta pagine, scrittura densa, tra sociologia e poesia, nessun idillio. L’oggetto è il sopravvivere nei piccoli paesi di un’Italia che si sbriciola, ma che regge stringendo i denti. Un’Italia diffusa ma minore, di cui si parla poco e che rischia di scomparire. Un’Italia che si sente profondamente Italia e talvolta, nella sua dignitosa miseria, maggior si sente. “L’Italia profonda” è stato presentato dai due autori insieme solo in rare occasioni, una di queste a Cerreto Alpi, alla quale sono riferite le fotografie, e dove la presentazione è stata conclusa dalle canzoni di Livio e Manfredi.
Due autori, due sguardi
I due scrittori si alternano su una decina di temi, distillando un dialogo avvenuto tempo fa a Roma, Palazzo dei Piceni. Le loro parole divergono, si affratellano, più assonanze che dissonanze. Franco Arminio è poeta, regista, “paesologo”, stanziale di Bisaccia, Irpina, ma nomade di borghi, paesi e città italiane, “pescatore della desolazione”. Ha uno sguardo sugli Appennini “tra entusiasmo e mestizia”, con contenuta speranza. Stile lirico perché “il mio corpo produce immagini, è una questione fisiologica”. Ferretti Lindo Giovanni si descrive “cantore/scrivano, montano italico cattolico romano”, “partito bimbo” da Cerreto Alpi, crinale tosco-emiliano dell’Appennino, poi leader e cantante dei Cccp, e “tornato uomo”. La prima generazione che è cresciuta sui banchi di scuola, dopo secoli di pastorizia e civiltà rurale. “Mi sono salvato la vita pascolando parole, allevando pensieri, tornando a casa”. Il suo è un discorso che continua, dopo i lavori degli ultimi anni dedicati alla bella gente d’Appennino e all’esperienza di Saga. Scrive in modo tagliente, la prosa è sferzante, si fa voce della storia fiera di una comunità arcaica.
Restare e ciò che resta
L’indagine gira attorno a questo “restare” e a ciò che rimane, in un luogo che più di altri porta le tracce dei popoli italici. “Ci deve essere un motivo del mio restare qui, qui dove mia madre e mio padre dormono con le ossa sfasciate nel buio” scrive Arminio. Un restare che guarda al passato come a un fatto e al presente con gli occhi asciutti. In pochi anni, scrive Ferretti, dove c’erano pastori, allevamenti, transumanze, pascoli, una coltura che era una cultura, si è verificato “un brusco passaggio, totalizzante a estraniante: da paesani a cittadini, da ora et labora a produci/consuma. Da sradicati a sradicanti. La maggior parte delle persone l’ha vissuto come la liberazione da un destino ingrato”. Sparita nel giro di una generazione un’economia costruita nei secoli che dava benessere a comunità numerose, i paesi si sono spopolati, ce ne sono di vuoti, di distrutti dal terremoto, di scarsamente abitati. Ciò che rimane sembra essere un’assenza.
Strategie che non aiutano
La fiducia in misure efficaci da Roma, dall’Europa, dalle Regioni, è persa. “Per molti anni non abbiamo avuto alcuna politica seria per l’Italia delle montagne”, scrive Arminio. Ora c’è la Strategia nazionale delle Aree interne, ma servirebbe molto di più. “C’è bisogno di politiche specifiche, buoni ospedali, buone scuole”. L’Europa si manifesta come il grano pagato 15 euro al quintale, il costo di una pizza e una birra. E Ferretti è sulla stessa linea d’onda, da un paese di 60 abitanti, che mediamente “conta meno di un condominio”. Posti dove si fa fatica a mantenersi e la burocrazia sembra fatta apposta per deprimere ogni iniziativa. “Bisogna temere e rifuggire i piani nazionali di valorizzazione perché a volte si verificano”, dice l’ex Cccp. Sfugge il senso del riconoscimento di area Unesco alla zona del crinale e “nell’idea di trasformare un territorio in un Parco sta la sostanza che qualcuno guarderà e altri saranno guardati”.
Pensare pensieri impensati
Intanto le montagne si sgretolano, perché nessuno più le coltiva, né cura i boschi e irreggimenta le acque. Ferretti fa in poche righe una descrizione puntuale. Senza una economia propria, le attività produttive chiudono, gli studi di settore “hanno dato il colpo di grazia”. Eppure, c’è chi resiste e resta sui monti, pur se “è antieconomico, diventa antisociale, persino peccato di arroganza”. Donne e uomini degli Appennini che “vivono il presente senza esserne succubi. Liberi per quel che si può, custodi della propria storia e responsabili della propria sorte”. E’ quella “comunità naturale” che non si sceglie e che per forza di cose è quella giusta. Se l’erosione delle pendici è il primo problema “arginarla è un lavoro immane, che dipende da uomini liberi, proprietari, custodi della terra, di generazione dopo generazione, che non dipendono da ordinanze e non aspettano finanziamenti”. Verrebbe da dire una comunità libera e autarchica, quasi un’utopia. Arminio: “Bisogna aprirsi all’impensato. Provare a fare cose mai fatte”. Lavorare a “un nuovo umanesimo delle montagne”, magari nella terremotata Camerino, dove c’è una università antichissima. E bisogna “lottare e cantare, comprare l’olio e il vino dai contadini, il formaggio, senza badare al prezzo”. Bisogna “spaccare le pietre per fare nuove strade, da cuore a cuore”.
Cose prime e stare a lato
Fare cose prime, azioni e gesti quotidiani. Poi magari capita, per via dei pensieri impensati, di fare a Cerreto una mostra di Icone ortodosse del monastero di Decani in Kosovo, come è successo. “A me pare che la fortuna dell’Appennino sia nel suo essere a lato, più vi si accomoda meglio è. Se c’è salvezza, sta nell’ombra” conclude Ferretti. E quindi “salvaguardare comportamenti e saperi, coltivare e allevare uno sguardo fiero e libero sui secoli”.
Tra smarrimento e speranza, la posizione di Arminio non è distante: “Andare a trovare i paesi, guardarli. Un paese è il vento che soffia in faccia, il raduno dei vecchi dal medico di famiglia. Ci vuole attenzione per tutto. (…) Credere che ovunque è possibile una grande vita, ma se la fai nel tuo paese non stai solo facendo la tua vita, stai tenendo in vita anche gli altri, anche se non lo sanno”. Ed è così che, a ben guardare, questa Italia profonda che si sta sgretolando, parla a tutta una società in via d’estinzione, la nostra, e sembra indicare un modo, il più possibile autentico, di non sfuggire alla realtà e di osare, magari, un ultimo desiderio.
Fotografie della presentazione a Cerreto Alpi © Mimmo Spadoni