Lea Tsemel si definisce un avvocato perdente, perché ogni caso che ha preso in carica lo ha perso. Eppure è l’avvocato più coraggioso e di maggior successo al mondo, conosciuta come “l’avvocato del diavolo“. Nata ad Haifa da genitori russi e polacchi nel 1933, si è laureata in giurisprudenza all’università di Gerusalemme. Ha sentito la parola “rifugiati” per la prima volta all’età di 15 anni. Era negli Scouts e quando la delegazione è stata invitata negli Stati Uniti, le hanno insegnato cosa avrebbe dovuto rispondere nel caso le avessero fatto domande sulla questione dei rifugiati palestinesi. Nel 1967, Lea Tsemel decide di visitare l’area della West Bank e la vista delle lunghe file di rifugiati arabi che camminavano verso la Giordania, le evocano gli spettri del passato europeo. Ma la svolta arriva quando uno dei suoi amici all’università viene processato per aver violato i regolamenti di emergenza (leggi britanniche promulgate contro i sionisti nel 1945 e usate oggi dagli israeliani contro i palestinesi). “Ho avuto l’impressione di essere stata ingannata per tutta la vita – ha raccontato Lea in varie interviste – e sono diventata anti-sionista”.
Ora la vita e le battaglie legali di Lea Tsemel sono raccontate nel documentario “Advocate” di Rachel Leah Jones e Philippe Bellaiche, presentato al Sundance nel Concorso internazionale documentari, e in in Italia in anteprima al Biografilm Festival nella sezione Contemporary Lives. Le immagini si intrecciano con i filmati d’archivio dei casi storici, la maggior parte delle quali si impigliano nel distorto sistema giudiziario di Israele. Che è esattamente ciò che rende Tsemel un personaggio così straordinario.
Oggi Lea Tsemel non difende solo i palestinesi davanti alle corti israeliane. Nella sua instancabile ricerca della giustizia, è impegnata in campagne per la difesa dei diritti umani, della libertà di abortire e per la soppressione dello status religioso del matrimonio perché in Israele è proibito sposarsi con rito civile.Per i palestinesi è un’alleata. Per la maggior parte degli israeliani, è invece una traditrice, difende l’indifendibile. E’ addirittura considerata ufficialmente un “rischio per la sicurezza del paese e un difensore del nemico”. E’ questo che avrà pensato anche la ministra israeliana della cultura Miri Regev quando ha criticato la candidatura del documentario agli Oscar 2020. Il caso ha riacceso il dibattito intorno ad una legge voluta dalla stessa Regev che nega il finanziamento pubblico a quelle opere cinematografiche che non sono in linea con le posizioni politiche dell’attuale governo.
La co-regista Rachel Leah Jones e Lea si conoscono da più di 20 anni. “Fin da subito ho pensato che sarebbe stato un soggetto perfetto per un film”, racconta nell’incontro con i giornalisti presenti al Biografilm Festival. “L’occasione è arrivata quando ho conosciuto Philippe Bellaïche, che del film non è solo co-autore ma anche operatore del film. Filmando Lea, si è reso conto che lei stessa è espressione di quel cinema verità in grado di rappresentare con forza le cose “come accadono nella realtà“. Lea Tsemel aggiunge che il film non racconta la sua storia ma quella di tutti gli avvocati che si trovano a combattere contro le atrocità che vengono commesse quotidianamente contro la popolazione palestinese. “Ogni giorno siamo alle prese con nuove decisioni, processi, gradi di giudizio. ma dobbiamo andare avanti. Non possiamo arrenderci“.
Il film si concentra in particolare su due casi. Quello di un ragazzino palestinese accusato di un crimine che non ha commesso. L’incidente in cui è stato coinvolto è stato gonfiato in modo sproporzionato dal governo che chiedeva pene troppo severe per un minore. E poi quello di due donne, spesso costrette a diventare esecutori di un ‘reato’ per disperazione. Sequenze animate nascondono invece le identità degli imputati per garantirne l’anonimato.
Lea perde sempre, come lei stessa afferma nel film, ma ha ottenuto anche una grande vittoria. Una sentenza della Corte suprema israeliana vieta l’utilizzo dei metodi di tortura da parte delle autorità durante gli interrogatori per estorcere confessioni alle persone arrestate. Una felicità sfumata troppo rapidamente: “Israele ha messo in campo una serie di strumenti giuridici e amministrativi che consentono l’uso della tortura in determinate circostanze”, tiene a precisare Lea. “In altre parole, il servizio di sicurezza ha carta bianca per torturare i detenuti senza necessità di stilare nessun rapporto”.