Irma Testa è la ‘farfalla’ che si muove sinuosa sul ring. Non a caso Butterfly è il soprannome che le ha dato il suo maestro e mentore Lucio Zurlo quando era poco più che bambina ed è, anche, il titolo del docu-film diretto da Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman. Butterfly racconta la storia della ragazza oplontina, la prima atleta donna pugile ad essere stata selezionata per le Olimpiadi a Rio nel 2016. Il film segue gli allenamenti prima della partenza per il Brasile, racconta del rapporto con la madre, i famigliari e con la comunità di Torre Annunziata, dove la ragazza che preferiva la boxe alla danza, dove è cresciuta e dove si è allenata con il maestro Zurlo. Fermatasi, ai quarti di finale, il docu-film ci fa scoprire la sua parte più intima e la delusione per quella sconfitta difficile da superare.
Così si raccontato i registi e la protagonista.
Come nasce l’idea del documentario?
Casey: Tutto nasce da Irma. Quando l’abbiamo incontrata e conosciuto il contesto intorno a lei abbiamo capito che c’era qualcosa che ci piaceva e che volevamo raccontare. Io e Alessandro abbiamo un background legato al documentario e al reportage. Ci piace la realtà e raccontarla ma dev’essere anche una realtà nella quale puoi immergerti e che puoi raccontarla in un film che sia cinematografico. La storia di Irma poteva essere un film e abbiamo voluto raccontarla.
Ci piaceva l’idea di seguire un’atleta in questo percorso, anche prima di sapere il risultato delle Olimpiadi, volevamo raccontare questo viaggio sia nella vittoria che nella sconfitta. Poi dopo le Olimpiadi e la sconfitta ci siamo adeguati perché è la realtà che vogliamo raccontare; dopo Rio, però, abbiamo anche iniziato ad inserire delle parti che venivano scritte in precedenza ispirati da tutta l’esistenza di Irma. Scrivere per escludere delle cose, scrivere per dare una struttura al film e non per aggiungere delle parti.
Alessandro: La scrittura ci occorreva per dare struttura al film, per capire quali aspetti di Irma potessero interessarci di più e come proseguire nel racconto.
In realtà nel vostro lavoro siete quasi riusciti a trascende lo stile documentaristico, il cinema del reale, fondendolo con la fiction e facendo emerge in toto la figura di Irma.
Alessandro: grazie ad Irma siamo riusciti a realizzare un lavoro del genere. Le modalità di realizzazione si sono formate durante il progetto. Irma, inizialmente, si sentiva quasi pedinata ma, poi, si è aperta totalmente. Dopo le Olimpiadi, Irma si è messa in gioco, è riuscita a mettersi in gioco, ha avuto la forza e il coraggio di raccontarsi anche dopo una sconfitta.
Il pubblico entra in empatia con Irma. Il documentario riesce a far emerge una parte profonda dell’atleta, lei che vuole raggiungere qualcosa e, infine, la sconfitta.
Irma, quanto è complesso raccontare se stessi e soprattutto in una fase così importante e forte della propria vita?
Irma: in realtà all’inizio essendo molto piccola non comprendevo molto cosa sarebbe emerso dal documentario. In seguito è stato molto duro doversi aprire in una fase così difficile per me, sono una di quelle persone che normalmente si chiude e cerca sempre di mostrare la parte più forte della propria personalità. Quindi mostrare la fragilità, non solo davanti ai registi che mi seguivano ma, anche, sul grande schermo mi ha bloccata. Poi ho capito che se una persona è bella, lo è sempre, anche con le proprie fragilità e paure, quindi ho, poi, deciso di mostrarmi nella mia totalità.
All’inizio quasi mi negavo, cercavo di evitare le riprese, ma poi, abbiamo instaurato un rapporto profondo; ora Alessandro e Casey vengono a Torre Annunziata anche quando non ci sono, tutto il paese ha stretto amicizia con loro.
Io sono molto legata alla mia famiglia, ma ho sempre dovuto allenarmi, viaggiare e spesso ho dovuto abbandonarli e salutarli per dedicarmi allo sport. Un’atleta deve sempre dividersi tra la sua vita familiare e lo sport che prende tutta la sua esistenza. Dopo la confitta ho attraversato un momento molto difficile e ho capito che dovevo riprendere l’aspetto legato alla mia famiglia, quindi abbandonare un po’ la parte sportiva. La sconfitta è una cosa molto dura che o ti fa bene o ti annienta, a me fortunatamente ha fatto bene.
E quindi la disciplina sportiva appresa negl’anni è riuscita a darti la forza per rialzarti e reagire. Nel film emerge il desiderio da parte tua di decidere cosa volessi essere, senza costrizioni esterne.
Irma: quello che cercavo di far capire alla mia famiglia e soprattutto a mio fratello. Volevo fargli capire che è importante avere diverse prospettive, che si può avere qualcos’altro rispetto alle cose solite dal mio ambiente. Io, quindi, ho trovato la mia strada e mi auguro che possano trovarla anche i miei fratelli.
Anche il tuo allenatore Luico Zurlo, ti sprona a decidere individualmente. Com’è il rapporto con il tuo allenatore?
Il rapporto di qualsiasi allenatore con il proprio atleta è sempre più o meno lo stesso. A volte più complicato e difficile ma normalmente è una persona che ti aiuta e ti prende per mano verso qualcosa che lui sa che puoi raggiungere. Per me lui è stato una persona che mi ha guidato nella strada da percorrere e che la box era lo sport per me; qualcuno che mi ha salvata e mi ha portata via da un ambiente che mi circondava.
Lo sport è rappresentato come qualcosa di davvero positivo, quanto è importante, dunque aver raccontato una sconfitta?
Irma: beh, io mi auguro di vincere più che posso ma non è sempre possibile. La vittoria è l’incoronazione di tutti i sacrifici che si sono fatti, invece una sconfitta ti fa pensare che tutta la fatica affrontata sia stata inutile. Riprende ad affrontare tutti quei sacrifici dopo una sconfitta vuol dire avere molto coraggio, se trovi quel coraggio dimostri la tua crescita personale sia come atleta che come persona.
Tornando allo stile del film, l’unione tra cinema del reale e film di narrazione, vi siete ispirati a qualche autore in particolare?
Alessandro: un film di riferimento non c’è. Certo, ognuno di noi è frutto di quello che ha visto e vissuto ma non ci siamo ispirati a nulla. Abbiamo voluto, come diceva anche Casey, raccontare una storia. Irma e la sua realtà, lo sport, il contesto e l’ambiente che la circondavano ci hanno colpito subito. Il voler indirizzare alcune parti con la scrittura è stato solo un modo per far emerge delle parti invece che altre. Come, ad esempio, il racconto del litigio di Irma con la madre: eravamo lì per fare altre riprese, poi, ci siamo resi conti che quel momento andava filmato perché emergevano delle verità e delle dinamiche che dovevano essere raccontate.
Irma, il tuo esser donna ti ha creato delle difficoltà nell’ambito della box? Uno sport solitamente maschile che finalmente si apre al mondo femminile.
Quando ho iniziato a fare box c’erano quattro maestri nella palestra che non mi consideravano minimamente. Mi mettevano all’angolo e mi dicevano di smettere e di dedicarmi a qualcosa di più femminile. Il maestro Lucio, però, vedendo che non rinunciavo e andavo sempre in palestra, si rese conto che ero davvero convinta e ci credevo, decise quindi di iniziare ad allenarmi e di credere in me.
Io credo che lo sport mi abbia davvero dato la possibilità di emergere, io ho avuto sempre la voglia di emergere, di emergere dal mio ambiente e dallo stereotipo della donna di Torre Annunziata che deve stare in casa a accudire la famiglia.
Non mi ero mai confrontata con la mia parte più fragile, né con le mie paure e sui continui casi di violenza contro le donne mi fanno stare molto male. Le donne sono la più bella espressione di arte, bellezza, coraggio, purezza e forza che ci sia.
L’unico consiglio che posso dare è quello di ribellarsi, ma capisco che a volte non sia facile, l’amore spesso acceca e può rendere deboli. Penso però che ogni donna abbia una forza interiore, va solo scoperta.
Prossimi progetti e obiettivi da raggiungere?
Irma: sto lavorando per le Olimpiadi 2020 ma non parliamone troppo, preferisco essere scaramantica.