Nel 1991, due filosofi francesi, Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy pubblicarono un breve saggio intitolato Il mito nazi. Il testo fu ispirato da un quesito che ancora si impone: com’è accaduto che in una società progredita, in tutti gli ambiti del sapere, nel cuore dell’Europa sia stata possibile l’atrocità del nazismo, condannando il popolo tedesco quanto l’umanità intera senza giustificazioni? Avere in mente il quesito, sempre, non solo nel Giorno della Memoria, aiuta a mettere a fuoco ogni volta le risposte; costringe ad osservare il presente dell’Europa, non solo il vecchio cuore, ma il corpo intero del continente, composto da 28-1 organi.
La risposta di Lacoue–Labarthe e Nancy insiste nella comprensione del ruolo svolto dal ‘mito’ trasposto ideologicamente attraverso l’uso di parole d’ordine e fideismi sostenuti esclusivamente da osservazioni apodittiche. In altri termini, il mito è ‘la potenza che riunisce le forze e le direzioni fondamentali di un individuo o di un popolo, la potenza di un’identità sotterranea, invisibile e non empirica’, che ad oggi è ancora una minacciosa presenza sulla storia dell’Europa e nella ‘definizione’ dell’uomo europeo. Il nazismo ‘non è stato un mero incidente della storia’, questo affermano Lacoue–Labarthe e Nancy.
Un monito dagli anni ’90 che oggi suona come profetica analisi: il linguaggio dei contemporanei leader nazionalisti vestiti di vari sovranismi sono figli legittimi di questo ‘ieri’ da tenere in mente con lucida consapevolezza. Ricordare quali atrocità commisero i nazisti ed i loro alleati non è solo atto commemorativo in onore delle vittime della Shoah. Si tratta di un esercizio necessario per leggere in anticipo, oggi, segnali e sintomi: le condizioni ed i linguaggi che generarono o tollerarono l’orrore sono ancora attuali.
Il docufilm Chi scriverà la nostra storia, scritto e diretto da Roberta Grossman e prodotto da Nancy Spielberg, arriva oggi nelle sale italiane e in contemporanea europea, distribuito da Wanted Cinema e Feltrinelli Real Cinema.
https://www.youtube.com/watch?v=eYLbnfTAFKg
La narrazione del film, tratto dall’omonimo libro dello storico Samuel Kassov, nella sua versione originale è affidata alle voci del premio Oscar Adrien Brody (Emanuel Ringelblum), della candidata all’Oscar Joan Allen (Rachel Auerbach), di Charlie Hofheimer (Abraham Lewin) e Peter Cambor (Hersh Wasser). Le immagini d’archivio, filmati originali raramente visionati, interviste contemporanee e precise ricostruzioni storiche, mettono lo spettatore nella condizione di conoscere la storia dei resistenti del ghetto di Varsavia. È una memoria terribile, nello stesso tempo commovente: non è raccontata dai vincitori, né dai vinti, ma dalle voci di coloro che vissero e morirono per mano dei nazisti e dei loro complici. È la storia di una resistenza che fu scritta clandestinamente, perché fosse consegnata al mondo: ‘tutti scrivevano e scrivere divenne l’unico modo per essere padroni di noi stessi’.
La sceneggiatura è tratta da una collezione di cronache della distruzione. Nel novembre del 1940, un anno dopo aver completato l’invasione della Polonia, facilitata dal contemporaneo attacco ad est da parte dell’Urss senza che Stalin avesse dichiarato guerra alla Polonia, i nazisti rinchiusero nel ghetto di Varsavia quasi mezzo milione di ebrei. Ai residenti, circa 350.000, si aggiunsero migliaia di profughi rastrellati dai nazisti da ogni parte del paese.
Un gruppo segreto, lo Oyneg Shabes (La gioia del Sabato in yiddish) composto da giornalisti, scrittori, ricercatori, leader della comunità, persone di ogni estrazione, guidato dallo storico Emanuel Ringelblum decise di combattere le menzogne e la propaganda naziste con carta e penna.
Il materiale, i diari quotidiani, le collezioni raccolte con meticolosità, vennero custoditi da Israel Lichtenstein in un luogo segreto, uno scantinato. Solo Ringelblum ed Hersh Wasser, leader di comunità rifugiato a Varsavia nel 1939, conoscevano quel luogo segreto. I posteri poterono conoscere quelle verità poiché dei tre Hersh Wasser sopravvisse.
Le voci dello Oyneg Shabes raccontano la vita e le trasformazioni del ghetto dal punto di vista di chi ci ha vissuto, dal punto di vista ebraico. Commissionò non solo diari, ma saggi, storielle, poesie, canzoni per documentare le atrocità naziste riuscendo a far arrivare a Londra i resoconti sullo sterminio realizzato dai nazisti e dai collaborazionisti. Materiale unico e raro che denuncia, durante il rastrellamento iniziato nell’estate del 1942, la brutalità della polizia ebrea. I nazisti avevano ordinato l’espulsione dal ghetto: fino a 7000 persone al giorno vennero rastrellate con violenza connivente; di questa non si parlò mai dopo la fine della guerra. A Varsavia, nel ghetto rimasero circa 60.000 ebrei, erano gli abili al lavoro, finché non morte non li stremasse.
Mentre la popolazione veniva deportata nelle camere a gas di Treblinka ed il ghetto veniva distrutto dalle fiamme come reazione nazista alla sollevazione che i sopravvissuti tentarono, i membri dello Oyneg Shabes riuscirono a seppellire oltre 60.000 pagine di documenti: la speranza era che l’archivio sopravvivesse alla guerra e alla loro stessa fine. Per il coraggio, la devozione, la lucidità al di là dell’inimmaginabile sofferenza di quegli uomini e di quelle donne, adulti e bambini, di Varsavia, Chi scriverà la nostra storia è il dovuto tributo di gratitudine: in quelle parole ascoltate c’è l’umanità contemporanea, le sue ombre e le speranze. L’Europa del presente è di nuovo in debito di speranza verso la propria gente, verso genti altre.