La Street Art, nata nelle strade di New York a fine anni ’70 come arte effimera, legata al gesto/azione e destinata a scomparire presto, sia perché realizzata illegalmente sia per i materiali poveri con cui è realizzata, può diventare arte da museo? Alla Street Art si può estendere il diritto d’autore? Un’opera d’arte dipinta illegalmente su un muro pubblico è di tutti o sempre solo dell’autore? Quali sono i quesiti, etici e legali, che comporta il prelevare, dalla strada un’opera senza il consenso dell’artista? E’ giusto toglierla o dovrebbe restare nel luogo in cui è stata concepita?
Sono queste le tante importanti domande che, con un accattivante approccio, riesce a suscitare il film-documentario di Marco Proserpio “L’uomo che rubò Banksy“, presentato con successo al recente Torino Film Festival e che sarà in alcune sale solo l’11 e 12 dicembre prossimi (elenco delle sale su www.nexodigital.it). A narrarlo è la voce di Iggy Pop , alias James Newell Osterberg, icona del rock and roll nonchè padre putativo del punk.
Il film usa l’arte del famoso, ma ancora oggi fisicamente sconosciuto artista inglese di Bristol, il geniale Banksy, solo per sviscerare un fenomeno artistico-sociale-economico che coinvolge nella sua riflessione non solo l’arte, ma anche l’economia, la cultura e la politica, in un mix di valori etici ed economici. Non è quindi un film-documentario su Banksy, ma il racconto-riflessione, attraverso un famoso murale dell’artista, di un mercato parallelo, tanto illegale quanto spettacolare, di opere d’arte strappate dalla strada e dal loro contesto.
Siamo in Palestina, nel 2007. Banksy e la sua squadra si introducono nei territori occupati e con rapide incursioni notturne portano a compimento il progetto “Ghetto Santo”, che prevede dipinti su case e sull’orrido muro di cinta israeliano, alto 8 metri, che separa Israele dalla West Bank. Tra queste opere c’è il murale Donkey Documents che raffigura un soldato israeliano ad un check point che chiede i documenti ad un asino. Molti abitanti di Betlemme non colgono il graffiante umorismo dell’opera di Banksy contro il militarismo di Tel Aviv e la sottintesa richiesta di cessazione di quel rituale violento e umiliante che è la continua certificazione di identità che vige nei territori occupati, e non gradiscono affatto l’opera: si può passar sopra all’essersi introdotto nei territori ed aver agito senza nemmeno presentarsi alla comunità palestinese, ma l’essere dipinti come asini (cioé stupidi) davanti al resto del mondo è un affronto insostenibile. Altri invece non sono di questa idea, come l’ex sindaco di Betlemme, Vera Baboun, che considera invece l’artista di Bristol come un eroe contemporaneo.
Non passa comunque molto tempo prima che qualcuno dei dissidenti passi all’azione. E così Walid, palestrato taxista palestinese, decide di staccare il blocco di muro della discordia e di venderlo su Ebay per 1000 mila dollari per aiutare la comunità locale. A finanziare l’opera è un imprenditore del posto, Maikel Canawati e presto il blocco di cemento di 4 tonnellate contenente l’opera viene strappato dal muro, imballato e poi venduto ad un collezionista scandinavo che spera di rivenderlo in un’asta. Sono passati 7 anni da quell’acquisto ma l’opera di Banksy è ancora ferma a Copenhagen. Scopo del film non è solo quello di raccontare la storia della diaspora palestinese sull’arte di strada, di matrice occidentale, sui messaggi che la Street Art veicola sui muri, quanto invece l’evidenziare la nascita di un mercato parallelo in atto da anni, illegale ma spettacolare, di opere strappate dalla strada senza il consenso degli artisti, quali, per esempio, Keith Haring, Basquiat, fino alle recenti opere di Blu, “strappate” dal restauratore Camillo Tarozzi e presentate nel 2016 ad una mostra a Bologna, suscitando l’ira dell’artista marchigiano che per protesta coprì di vernice tutte le sue opere presenti nel capoluogo emiliano.
Nel lavoro di Proserpio, riprese fatte in strada in diversi Paesi si alternano ad interviste ad esperti professori universitari, galleristi, giornalisti, avvocati e soprattutto collezionisti, personaggi chiave di queste speculazioni artistiche. Una testimonianza importante per capire il fenomeno e e che dà comunque voce per la prima volta al palestrato Walid, permettendogli di spiegare la sua scelta, lasciando decidere allo spettatore chi sono i buoni e i cattivi: come in tante cose che coinvolgono valori, soldi e politica, è solo una questione di punti di vista.
La riuscitissima colonna sonora è di Federico Dragogna, Victor Kwaliti e Matteo Pansana. Il film è prodotto da Marco Proserpio stesso in collaborazione con Rai Cinema e distribuito da Nexo Digital, all’interno del progetto della Grande Arte al Cinema. Nel frattempo, al Mudec di Milano, quasi 20 mila persone hanno già visitato la contemporanea mostra dedicata proprio a Banksy.