“Faccio solo i film che vorrei vedere al cinema, dato che non li fa nessuno mi carico di questa responsabilità e li faccio io. Per questo se anche minimamente il mio Menocchio fosse stato simile a qualcosa di già visto non lo avrei fatto”.
Così Alberto Fasulo parlando del suo straordinario Menocchio, presentato al festival di Locarno e ad Annecy (Gran Premio della Giuria) in distribuzione da questa settimana in Italia con una formula particolare di cui diciamo a parte.
Ha ragione Fasulo. Questo Menocchio è un film strepitoso che ricorda il Decameron di Pasolini, un po’ Gostanza da Libbiano di Benevenuti, la mano di Ermanno Olmi, la potenza di Dreyer, eppure nessuno di questi ne raggiunge la completa, poetica, drammaticità.
Attraverso il volto strepitoso di Marcello Martin, un non attore fortemente voluto da Fasulo, ripercorriamo la complessa vicenda storica del mugnaio di un piccolo villaggio sperduto fra i monti del Friuli, Domenico Scandella, detto il Menocchio, che alla fine del Cinquecento affronta il tribunale dell’Inquisizione per difendere le sue teorie, naturalmente considerate eretiche, sulla natura di Dio e sulla chiesa di Roma.
Erano i tempi in cui la Chiesa Cattolica Romana si sentiva minacciata nella sua egemonia dalla Riforma Protestante, sferrando la prima sistematica guerra ideologica di uno Stato per il controllo totale delle coscienze. Il nuovo confessionale, disegnato proprio in questi anni, si trasforma da luogo di consolazione delle anime a tribunale della mente. Ascoltare, spiare e denunciare il prossimo diventano pratiche obbligatorie, pena: la scomunica, il carcere o il rogo. Menocchio non vuole patteggiare o fuggire, seguendo il consiglio degli amici e famigliari, ostinandosi ad affrontare il processo per eresia.
La vicenda ha più di mezzo millennio, eppure si rivela di un’attualità potente. Menocchio è l’elogio di chi ogni giorno resiste al pensiero unico di quel potere che ci pretende omologati.
Un lavoro quello di ricostruire la vicenda di Menocchio durato quasi quattro anni tra scrittura, produzione, casting e riprese che ha letteralmente sconvolto Martin, già guardiano delle dighe del Vajont e vicesindaco di Claut, piccolo comune del Friuli.
In conferenza stampa a Roma il regista non riesce nemmeno a parlare, tanto il personaggio lo ha commosso.
“Quando Alberto mi ha contattato raccontandomi la storia di Menocchio – dice prima di scoppiare in lacrime – ho capito che qui il lavoro da fare era enorme, si trattava quasi di scardinare il mondo, tutto, di ribaltare ogni cosa. Dovevamo buttare giù una montagna con una mazza da baseball, un lavoro e una fatica enormi”.
Ed in effetti è così. Attraverso la natura e i volti segnati dalla fatica, dal sudore, dalla vita semplice e misera dei poveri, comprendiamo che la statura morale di un uomo passa per i suoi affetti, per la relazione con l’ambiente e la sua comunità. Per questo la camera di Fasulo è spesso dentro le rughe di Menocchio, dentro i suoi occhi vivi e mai domi, ricordandoci che l’uomo può raggiungere vette di resistenza ineguagliabili ma che l’intelligenza è anche sapersi adeguare e modificare i propri comportamenti per poter sopravvivere.
C’è una chiesa di uomini che teme le teorie eretiche e chiede alle comunità di denunciare i propri simili, e ci sono uomini che resistono. E c’è una natura che parla diversamente a quegli stessi uomini. Dio è negli alberi, a loro vi dovreste confessare, la Madonna non può essere vergine, Dio è un uomo, come tutti, questo dice Menocchio. E non si può.
“Non volevo raccontare la vicenda attraverso gli atti del processo – conclude Fasulo così come in Gostanza da Libbiano per esempio – ma dare vita, umanità, respiro a quelle carte anche scostandomene, trovare un legame con la terra e la natura che tra le righe non si legge”. Legame con la natura che il regista rispetta anche nella scelta della luce e della fotografia. E qui lo accostiamo ad un altro capolavoro come Barry Lyndon di Kubrick, tutto è luce naturale o lume di candela, il che conferisce a questo lavoro un’aura pittorica assolutamente rinascimentale.
Menocchio è un film che andrebbe visto da tutti. Proiettato nelle scuole, nelle case, nelle chiese. Se lo avesse girato un regista estero grideremmo al capolavoro. Se non vi offendete lo dico qui, è un capolavoro. Ed è anche giusto che la distribuzione sia indipendente e abbia formule diverse da quelle usuali.
“Non usciremo in x copie – dice la produttrice di Nefertiti – per un periodo x di tempo, ma abbiamo chiesto agli esercenti di fare proprio il film e garantire una visione di lunga durata, in modo che vi sia una sorta di fidelizzazione con questo personaggio. Quindi avremo una distribuzione più lunga nel tempo e speriamo che tutti possano vedere questo film”.