Dal 2011, la Libia nella penisola italiana è concepita come terra di guerra, instabilità, ricettacolo di sgherri e trafficanti di esseri umani, luogo di detenzione e tortura. È al di là del mare, uno dei luoghi da dove parte un’umanità che non si vorrebbe far approdare sulle nostre sponde. Eppure nel cuore di molti italiani, la Libia è luogo caro e doloroso della memoria, luogo natio. Dai ricordi di questi italiani, dalle loro testimonianze fatte di racconti ed immagini, attraverso la ricostruzione storica puntualizzata in pillole dallo storico africanista Luigi Goglia e supportata da preziosi filmati dell’Archivio Storico dell’Istituto Luce, la regista Giovanna Gagliardo ci riporta nella Libia del 1911, cento e più anni fa, per riavvolgere il nastro della storia, indagando con discrezione il rapporto controverso che lega l’Italia alla Libia, fino ad oggi.
Chi si aspetta una prova di regia che indugi in giudizi di matrice storico politica, resterà deluso, la prova filmica di Gagliardo lascia che lo spettatore osservi, ascolti, che ai titoli di coda sia pieno di una storia sviluppata su più livelli narrativi, magari fino ad allora sconosciuta o conosciuta parzialmente e che esca dalla sala con il desiderio di approfondirla, forse.
La Libia fu terra di conquista per l’Italia. Quella storia resta, così come la vergogna della regia fascista, come raccontato dal film di Mustafa Akkad del 1981, basato sulla vita del senussita libico Omar al-Mukhtar, Asad al-ṣaḥrāʾ, Il leone del deserto; film censurato in Italia per più di 25 anni e proiettato, in televisione, solo nel 2009. Gagliardo però è meticolosa. Sì, la Libia è terra sbranata, ma dalla follia di molti eserciti, prima vincitori, poi sconfitti: tutti concorrono a distruggere il gioiello di architettura candida che scopriamo dai frame antichi. Ancora oggi il destino libico è legato alla forza delle armi di fazioni contrapposte. Di parata in parata, dagli Italiani, agli Inglesi nel ‘43. Dalla rivoluzione di Muammar Gaddafi alla sua morte ai bombardamenti della Nato nel 2011, passando per l’era del business tra Gaddafi e la Fiat, le monumentali ‘passeggiate’ volgarmente celebrative della rinnovata amicizia italo-libica nel biennio 2008-2009, con protagonisti il vecchio colonello e Silvio Berlusconi, la concessione del ritorno in Libia, l’emozione dei primi che vi fecero ritorno.
Nel Il mare della nostra storia, le armi tacciono, almeno il loro disturbante rumore. A parlare deve essere altro: i ricordi che evocano la ‘principessa del Mediterraneo’, la città bianca, Tripoli.
Per gli italiani che furono costretti ad abbandonare le loro case ed i loro beni, nel 1970, cacciata anticipata da quella degli ebrei nel 1967, dopo la guerra dei Sei giorni, Tripoli è ancora il nostalgico scrigno di bellezza. Lo si scopre svelato nelle parole dei testimoni: Marina Cicogna, David Zard che racconta anche della sua amicizia con Herbert Pagani, una piccola colonia di ebrei residenti ad Anzio, Claudia Fellus, Iris Raccah Fellus, solo per citarne alcuni.
L’ultima parola su Tripoli spetta a Hiba Shalabi, la 41enne fotografa divenuta star del web grazie al lavoro di documentazione fotografica della medina che nel gennaio del 2018 lanciò su twitter l’hashtag #saveoldcityTripoli. Le istantanee di Shalabi denunciavano lo stato di grave incuria ed abbandono in cui versa il cuore antico di Tripoli. Il suo appello sembra essere la perfetta didascalia al senso ultimo del film di Giovanna Gagliardo: curare e custodire la memoria della bellezza possibile, per attualizzarla come necessaria possibilità nel presente, al di là della storia stessa e delle sue ferite.