Nonostante l’allarme lanciato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, arriva una nuova battuta di arresto sul fronte della lotta globale al cambiamento climatico. Come riportato dalla BBC, la conferenza internazionale sul cambiamento climatico tenutasi a Bangkok e conclusasi il 9 settembre è stata un ‘quasi’ fallimento. Un’occasione, l’ennesima, per una presa d’atto della inefficienza e dell’inazione politica dei governi, soprattutto dei paesi ricchi, che ad oggi non si pongono la questione come sfida prioritaria a livello locale e globale. La Bangkok Climate Change Conference ha quindi fallito l’obiettivo di avanzare verso il raggiungimento di documento condiviso sulle azioni da intraprendere di concerto contro l’aumento delle emissioni globali di carbonio, da esporre alla conferenza COP24 di Katowice, in Polonia, prevista per il prossimo dicembre. In gioco non c’è solo la definizione di un programma ma gli impegni assunti nel 2015 con la sigla dell’Accordo di Parigi.
Uno degli obiettivi primari dell’accordo di Parigi, a cui aderirono 190 nazioni, è di contenere l’aumento della temperatura globale: mantenersi sotto i 2 gradi Celsius (3,6 gradi Fahrenheit) e quanto più vicino possibile ai 1,5 gradi per il 2100. Sembra la descrizione di uno scenario da film apocalittico, invece è uno degli obiettivi minimi da conseguire, vitale per la sopravvivenza delle nazioni insulari minacciate dall’aumento del livello dei mari.
Patricia Espinosa, Segretaria Esecutiva per la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico, ha dichiarato domenica alla conferenza stampa di chiusura dei lavori di Bangkok che la battuta di arresto parziale del programma verso Katowice è da imputare a”progressi limitati” sulla questione dei contributi che le nazioni sviluppate dovrebbero conferire ai paesi in via di sviluppo. Si è detta, tuttavia, “fiduciosa” sul futuro, data l’importanza della questione a livello globale.
Il pomo della discordia che ha portato allo stallo, anche secondo Harjeet Singh, responsabile di Politica Climatica per ActionAid International, è la definizione del supporto e dell’assistenza finanziaria che le nazioni sviluppate dovrebbero fornire ai paesi in via di sviluppo per fronteggiare i disastri naturali causati dai cambiamenti climatici. Per Alden Meyer, direttore di strategia e politica della Union of Concerned Scientists, una ong con sede negli Usa, bisognerà aspettare il prossimo appuntamento in Polonia e sperar che i funzionari che conducono i negoziati trovino il modo “per colmare le profonde differenze emerse sulla questione. L’obiettivo è arrivare ad un accordo a Katowice su di un pacchetto di regole condivise e completo per passare alla fase attuativa dell’Accordo di Parigi.”
Stati Uniti, Australia, Giappone ed Unione Europea hanno rifiutato una definizione chiara dell’ammontare e delle modalità di erogazione di finanziamenti da destinare ai paesi in via di sviluppo; questi ultimi, invece, ‘sponsorizzati’ da Cina, India, Iran, Arabia Saudita e Malesia.
Critiche aspre agli USA anche da Meena Raman, consulente legale di Third World Network: i lobbisti di Washington hanno ribadito la volontà del presidente Donald Trump di ritirare gli Usa dall’Accordo di Parigi, tuttavia si presentano ai tavoli di negoziazione “indebolendo la cooperazione internazionale e rifiutandosi di contribuire al finanziamento e al trasferimento di tecnologia verso i paesi più poveri.”
La speranza che in Usa il dibattito sul cambiamento climatico si sposti su posizioni diverse da quelle espresse dall’amministrazione Trump risiede nella resilienza di migliaia di governatori e sindaci, amministratori delegati di imprese e leader della società civile che si riuniranno questa settimana a San Francisco per il Global Climate Action Summit. È un’occasione da non perdere anche in vista delle ormai imminenti elezioni di Midterm. Non è detto che Donald Trump le superi politicamente indenne.