A Le Giornate degli Autori, nell’ambito della 75esima Mostra Internazionale di Arte Cinematrografica a Venezia, è stato presentato il film documentario Il Teatro a lavoro, del giovane regista Massimiliano Pacifico. Il film, che sarà distribuito nelle sale dalla Kio Film di Valentina Del Buono congiuntamente al cortometraggio di Peter Marcias, L’unica lezione, restituisce l’avventura umana vissuta da Toni Servillo e dai suoi giovani colleghi nella creazione dello spettacolo Elvira. Lo scorso 3 settembre alle 21, gli spettatori raccolti si sono accomodati puntuali per assistere alla proiezione. Tra il pubblico spiccavano anche i protagonisti del film: Toni Servillo, il maestro, ed i suoi tre giovani colleghi attori, Petra Valentini, Davide Cirri, Francesco Marino.
Come spesso accade, prima di una proiezione, chi scrive di un film possiede brevi notizie che alimentano l’attesa della visione e nello stesso tempo formano un piccolo bagaglio di conoscenza a cui attingere per ‘guardare’ l’opera stessa.
Per l’ultimo documentario di Pacifico si aveva a disposizione, invece, un labirinto di senso e di significati possibili. Prima di ogni altra nozione da cui partire, il film si presentava già come la messa in scena di una vera e propria ermeneutica del e sul teatro. Incamminandosi nel labirinto, si incontra Louis Jouvet, uno dei più importanti attori di cinema e teatro francesi del secolo scorso.
C’è Brigitte Jaques ed il suo Elvire Jouvet 40, scrittura dello spettacolo messo in scena nel 1986, per il quale ha tratto spunto da un saggio dello stesso Jouvet, Molière et la comédie classique del 1965 e la cui drammaturgia prende vita dal segno stenografico di Charlotte Delbo e dalle sette lezioni, appunto stenografate, che l’artista francese tenne tra il 1939 e il 1940. C’è Paula Dehelly, alias Claudia, l’allieva di Jouvet, a cui questi si rivolge in quelle sette lezioni per preparare un’ultima scena del personaggio di Elvira nel Don Giovanni di Molière. C’è Toni Servillo, straordinario attore di cinema e teatro contemporaneo, innamorato dell’opera di Jouvet e della sua capacità di trasmettere al pubblico, il più ampio possibile, il processo maieutico che crea un personaggio sul palcoscenico. Ci sono tre giovani attori e tra questi Petra che interpreta la Paula/Claudia, cui Jouvet parlava, ed è l’allieva cui Servillo parla. Poi c’è Massimiliano Pacifico che dopo aver diretto Toni Servillo 394 – Trilogia nel mondo, si rimette alla prova per raccontare di queste sovrapposizioni di senso e spazio-tempo.
Da qui si parte.
Abbiamo incontrato Massimiliano Pacifico e gli abbiamo rivolto qualche domanda per meglio comprendere il tipo di lavoro che sottende l’ultima delle sue prove.
Come hai cominciato a lavorare per tessere quel filo sottile in regia e seguirlo per muoverti in questo fitto labirinto ermeneutico?
‘Fin da subito – spiega Pacifico – è stato difficile anche per gli attori comprendere il livello ermeneutico in cui il dialogo in prova si sviluppava. Non sempre la distinzione tra Jouvet e Servillo era palese; a volte si trattava di una sintesi in divenire dei due. Come regista, da osservatore privilegiato, è stato all’inizio altrettanto difficile individuare la traccia dalla quale cominciare a raccontare. Avevo di fronte una situazione complessa: un attore importante che veniva raccontato e poi interpretato da un altro attore importante; che a sua volta impartiva lezioni di recitazione ad una giovane allieva sul come interpretare un’altra allieva, quella a cui lo stesso Jouvet dava lezioni di recitazione, per interpretare la Elvira nel Don Giovanni di Moliere: Petra era quindi Claudia ed Elvira, o Claudia che interpretava Elvira. Ad un certo punto ho però deciso di andare oltre gli aspetti della pura tecnica degli e negli insegnamenti dei due maestri, entrambi vivi nella voce di Servillo. Ho preferito osservare l’esperienza umana condivisa che le persone coinvolte stavano vivendo. Da una parte un grande maestro, Servillo, dall’altra i tre giovani attori. Nel documentario è evidente la loro emozione, la paura di sbagliare, il timore in alcuni casi reverenziale e dall’altra la determinazione, la caparbietà nel raggiungere un obiettivo attraverso un lavoro che è duro. Petra, per esempio, è cosciente della sua forza, sa che è stata scelta e sa che può interpretare Claudia. Nello stesso tempo è cosciente delle sue fragilità, che alimentano timori. È sorpresa ed è fragile rispetto al tutto, rispetto a Servillo stesso come maestro generoso ed intransigente. Questa relazione è diventata il mio focus narrativo. Mi interessava seguirne l’evoluzione. Comprendere come si alimentava di tensioni e di difficoltà, come crescesse o si incrinasse, come si celebrasse nella condivisione della gioia del debutto fortunato.’
Qual è stato il modo in cui sei riuscito ad interagire in una dimensione così intima, entrando a far parte anche tu del processo creativo in atto?
Quando mi avvicino al soggetto da riprendere prediligo la discrezione. Cerco di non interagire con gli attori. È il modo che prediligo per poter dare forza al linguaggio documentaristico. In questo film, l’anima del racconto è andata illuminandosi in fase di montaggio. In effetti è vero, mi sentivo parte, insieme all’operatore, di un processo in atto. In un certo senso, così come Brigitte Jaques aveva riletto le lezioni stenografate di Jouvet, i dialoghi con Claudia, stavo rileggendo, riportando l’esperienza umana di Servillo e Petra, con gli altri attori. Così coinvolto, era difficile definire nel mentre registravo un’unica traccia. Tuttavia sapevo che sarebbe arrivato un momento di crisi, un momento in cui l’attore, in questo caso Servillo, avrebbe ceduto. In quel preciso istante è venuto fuori il significato intimo del processo stesso che mi coinvolgeva: mostrare il lavoro, il mestiere dell’attore. La durezza, lo sforzo costante che può spezzare anche il più allenato e brillante degli attori. La ripresa costante e paziente, mi ha permesso di essere in quel momento e così in quello successivo, il momento del riscatto. Ho voluto, in fase di montaggio, mischiare le carte anche dal punto di vista temporale. Prima di tutto gli spettatori sono informati da subito che questo film racconta di uno spettacolo che è andato in scena, un successo al debutto al Théatre de l’Athénée di Parigi. I momenti successivi però sono una ricerca di equilibrio negli elementi narrativi. Una ricerca costante tra il dare informazione, quella che è nelle parole di Servillo attraverso le parole di Jouvet e la narrazione di tipo cinematografico che cala lo spettatore nella dimensione umana della situazione. Lo impatta nello scoprire la condizione ed il lavoro dell’attore come atto consapevole: lavorio ed esercizio in divenire, comprese le crisi, i riscatti, il successo ed i dubbi.
Da questo punto di vista, il tuo film è un altro tassello nella trama dialettica di ‘testi’ da interpretare?
Sì, il film spero sia visto come espressione artistica a se stante. Il mio auspicio è che possa arrivare ad un pubblico anche più ampio di quello appassionato di teatro oltre che dell’opera di Servillo, perché in realtà sto raccontando vicende umane, emozioni, pensieri di un gruppo di attori che si trovano ad affrontare delle difficoltà e che mettono in gioco se stessi per superarle. In questo senso esprime la sua autonomia trattando di una condizione universale, un processo dialettico e formativo che riguarda tutti: l’etica del lavoro che prevede uno sforzo costante e forza interiore da rigenerare ogni volta.
È tutta nelle parole di Pacifico la poetica e la poietica de Il Teatro a Lavoro: sessanta minuti durante i quali, tra le cromie calde dei teatri, Servillo ed i suoi attori raccontano il mestiere dell’attore e, parafrasando Jouvet, di quale fatica comporti far sì che una personalità abiti un personaggio; una lunga storia di perdite, abbandoni e ritrovamenti, prima che il pubblico ne possa essere sedotto.