Camorra di Francesco Patierno, presentato in Sconfini della 75ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è una profonda indagine socio-antropologica della malavita nel trentennio che comprende gli anni ’60 e la fine degli anni ’80.
Con questo terzo documentario, dopo La guerra dei vulcani (2011) e Napoli ’44 (2016), il napoletano Francesco Patierno prosegue la riflessione iniziata nel precedente lavoro. Anche stavolta decide di narrare l’excursus storico-sociale sulla sua città natale e lo fa grazie all’utilizzo di immagini di repertorio, servizi giornalistici e da resoconti nozionistici che sono accompagnati da una colonna sonora incisiva, da rumori forti e suoni dirompenti -che caratterizzano ed enfatizzano le stesse immagini- e dalla voice over della cantautrice partenopea Meg che rende più incalzante la già forte visione di Camorra.
Un film di montaggio, un montaggio sapiente e ben riuscito, che Patierno ha realizzato servendosi del materiale, anche inedito, delle teche Rai per ricostruire nascita, crescita e maturità dell’organizzazione criminale che oggi conosciamo.
Pian piano prende forma, dopo immagini dure e schioccanti di bambini spacciatori, di regolamenti di conti e uomini uccisi davanti agli occhi increduli dei passanti, l’iter che ha portato all’affermarsi della ‘nuova’ camorra.
Si esplica, infatti, la distinzione tra la “vecchia” camorra degli uomini d’onore, ormai retaggio di un tempo che non c’è più, e quella “nuova” dei signori della droga dei centri urbani, che spodestarono i boss dell’entroterra. La si racconta a partire dall’agiografia di uno dei più grandi fondatori: Raffaele Cutolo.
Da qui in poi si susseguono racconti che ritornano vividi nella nostra memoria, che riaprono vecchie ferite che mai si sono realmente rimarginate.
Camorra non ha un vero punto di vista da proporre ed un fine unico. L’intento è smuovere il ricordo, il drammatico ricordo ed evitare forse un ‘assuefazione al crimine’. Perché, come racconta Meg: “Napoli non è una città ribelle. Napoli è assuefazione delle classi popolari e plebee rispetto alle loro miserabili condizioni di vita. Napoli è assuefazione che consente alla città il mantenimento di uno stato di equilibrio rispetto agli equilibri profondissimi presenti tra le classi sociali”.
Il punto di partenza e quello di arrivo sono meramente cronologici ma in tutto il lavoro di Patierno si percepisce il desiderio di ricercare le cause della nascita e del proliferare della criminalità organizzata. Ma è anche vero che questa ricerca, smaniosa ricerca della cause non è plausibile; se, infatti, la radice dei problemi della città è sociale e radicata in un modus vivendi, allora niente e nessuno potrà mai trovare una giustificazione e una motivazione.
Ma l’obiettivo del regista è chiaro: trattare la materia a disposizione non tanto attraverso le logiche del documentario storico, ma con il ritmo e lo stile propri del cinema. L’effetto che si ottiene è di forte impatto ma allo stesso tempo lo spettatore resta estraniato come se si trattasse di fiction.
Forse perché, davvero, siamo tutti un po’ assuefatti? Fatto sta che Patierno riesce comunque a comporre un affresco storico, socio-antropologico e ormai atavico di un territorio e di un organizzazione che resta sempre sconosciuta e inviolabile.