Le ‘riflessioni’ del Ministro Di Maio, per commemorare le 136 vittime di Marcinelle, lo accompagnano nel rito di passaggio all’età della superficialità.
Fino a ieri, Luigi Di Maio era entrato ed uscito in spunta di penna dalle rassegne stampa della nostra redazione. Nemmeno la guerra ai congiuntivi ci aveva sconvolto. In fondo Luigi Di Maio è figlio di questa terra: un giovane ex disoccupato, con un contratto a tempo determinato. Fa simpatia. Oggi alleato, a volte vassallo, della destra legaiola, capo politico trasversale di una importante fetta di Italiani che hanno fatto della Sintassi Sperduta (i famosi battaglioni SS da tastiera) il proprio marcio di fabbrica: marcio e non marchio. Non è un refuso.
Anche gli isterismi di fine maggio invocanti la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per il veto a Paolo Savona al Dicastero dell’Economia, sembravano dettati più dalla giovane età del nostro: un virgulto in un sottobosco fitto di spine e mala erba. Quel primo veto ha poi portato bene alla carriera del giovin Di Maio, che calmatosi, ha vestito anche i panni del Ministro dell’Economia e del Lavoro, oltre che quelli di Vice Primo Ministro.
Ad appena poche ore dall’approvazione definitiva del decreto legge n. 87/2018, il cosiddetto decreto dignità, primo vero ‘successo’ politico del Ministro Di Maio, capace cioè di strappare le prime pagine dei media e le timeline dei social all’omologo legaiolo, il virgulto pentastellato ha perso l’occasione di parlare per farsi capire.
L’8 agosto si commemora la morte di 136 italiani, emigrati, tra le 262 vittime, che nel 1956 erano nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle, in Belgio. Il giovin Di Maio, schiacciato tra l’incudine Tav-Tap ed il martello pop Salvini, non ha trovato di meglio che così commentare: “Io penso soltanto che queste tragedie che noi ricordiamo ci devono portare a fare delle riflessioni. Per esempio, la riflessione che suscita in me Marcinelle è che non bisogna partire. Non bisogna emigrare e dobbiamo lavorare per non far più emigrare i nostri giovani. Il mio pensiero va a loro quando penso a tragedie come questa.”
Una dichiarazione che davvero lascia spiazzati. Al di là della nostra prima reazione, pruriginosa, cioè quella di toccare ferro e fare altri riti anti sfiga a nome di tutti i nostri connazionali impegnati per sogno, desiderio o necessità a progettare un futuro in altri lidi; il Ministro Di Maio ha dimostrato la sua indelicatezza nel dimenticare che nel 1956, l’Italia era nel pieno del tanto famoso e celebrato boom economico e che quegli italiani ci furono letteralmente mandati in Belgio, dalle Istituzioni, per uno scambio non proprio alla pari: braccia in cambio di carbone. Anche allora l’Italia brillava per lungimiranza in fatto di politiche energetiche: il Governo avrebbe mandato al Belgio 2000 uomini a settimana per 200 chili di carbone al giorno, per ogni minatore.
Di Maio, nella sua veste di Ministro del Lavoro, che sembra volerci dire ‘giovani non emigrate perché se emigrate troverete la morte; se lavorate in Italia avrete salva la vita (pensando probabilmente più al destino della marea non italiana che transita dal Mediterraneo e che ci rimane nelle acque del mare di mezzo), dimentica che in Italia, secondo i dati Inail riferiti ai primi 3 mesi del 2018, le denunce di infortunio con esito mortale sono state 212; l’11,58% in più rispetto al periodo gennaio-marzo 2017, durante il quale se ne registrarono 190. Così come dimentica che in tutto il 2017, le morti bianche sono state 1029, con un incremento dell’1,1% rispetto al 2016. Dimentica anche che nella tragica statistica Eurostat, seppur datata 2015, l’Italia presenta un rate di 2.42 incidenti e morti sul lavoro per ogni 100.000 lavoratori, ben superiore alla media europea fissata a 1.83, con agli estremi opposti la Romania (5.56) e l’Olanda (0.5).
Insomma sarà stato il caldo, l’emozione del momento, la ferma fiducia nel ‘rivoluzionario’ decreto dignità per cui tanto si è speso, ma il giovin Di Maio sembra ormai cresciuto, per ora in superficialità.