Dopo il carcere, guardare al futuro con uno sguardo nuovo non è facile. Si aprono le porte e fuori non c’è nessuno. Lo sanno bene i protagonisti di “Il Clan dei Ricciai” , il nuovo documentario del regista Pietro Mereu, vincitore del Premio Ucca – l’Italia che non si vede al Biografilm Italia 2018. E’ la storia di un piccolo gruppo di ex detenuti che vivono pescando i ricci nel mare della Sardegna nei mesi più freddi dell’anno. A dare loro una seconda chance per affrontare una società per cui sono ormai degli “etichettati”, è Gesuino, alto un 1,60 per ottantasei chili, ha un enorme anello con pietra al dito, parla lo slang della mala cagliaritana ed è a capo di una cooperativa di pescatori.
Gli altri sono Massimo, il braccio destro di Gesuino, che ha scontato sei anni per associazione a delinquere. Quando viveva a Milano era un ladro di Ferrari, Maserati e Porsche, e organizzava gare clandestine di auto. Poi c’è Andrea, 58 anni, che ha passato 14 anni della sua vita in carcere, il suo corpo è pieno di tatuaggi fatti durante la detenzione dai compagni di cella mentre per protestare contro le guardie si tagliava con le lamette. Tatuaggi ricoprono anche il corpo di Bruno, cugino di Simone che invece ha scontato 4 mesi ai domiciliari e vive con suo nonno, Nino vecchio pescatore denunciato varie volte per la pesca con le bombe.
Gesuino e il suo clan portano avanti una tradizione antichissima per la Sardegna e in particolare nella città di Cagliari. I divieti e i limiti per salvaguardare il mare e un prodotto a rischio estinzione hanno ridotto l’area di pesca scatenando faide tra quei pochi che ancora prendono una barca e vanno a caccia di frutti di mare.
La storia dei protagonisti prima e dopo il carcere viene ricostruita attraverso interviste individuali. Sono dei sopravvissuti a un sistema di detenzione pieno di difetti. “Alcuni da questa esperienza ne sono usciti distrutti psicologicamente e fisicamente come Andrea, altri ne hanno fatto un punto di forza come Gesuino”. Ma tutti combattono con la sensazione quotidiana di non farcela, nella solitudine del presente e con le lacerazioni del passato.
I membri del clan dei ricciai sono gli ultimi esponenti della vecchia malavita cagliaritana che sta scomparendo. “Ho voluto raccontare con un velo di romanticismo un mondo che non esiste più. Perché come racconta lo stesso Gesuino, oggi ci sono solo spacciatori, infami e spie. Non hanno codici d’onore e tatuaggi che esprimono i desideri di persone private di tutto. Gesuino rispetto agli altri, frequenta anche la buona società cagliaritana e definisce la sua barca ”Un ponte” tra il mondo della strada e della criminalità e il mondo rispettabile dei colletti bianchi”.
Il regista rivela inoltre che il clan gli ha dato una serie di regole da rispettare. “Dovevo terminare le riprese entro dieci giorni, non mi è stato concesso di parlare con le loro donne ed entrate nelle loro case. Ma ho avuto tempo a sufficienza per scoprire una realtà affascinante che si regge su meccanismi di solidarietà molto sottili ma ben comprensibili”.
Sullo sfondo i quartieri popolari di Sant’Elia, San Michele e Is Mirrionis, “dove per sopravvivere bisognava saper muovere le mani”. Tra i protagonisti c’è anche una star della musica sarda: Joe Perrino. “Non è un ricciaio né un ex detenuto, ma l’ho voluto nel documentario perché con ben due album dedicati alla malavita è il naturale cantastorie di questo Clan sui generis”.
Ma cosa sognano i ricciai? “Aprire un itti turismo da duecento posti a Cagliari”, rivela Gesuino. Il sogno di Massimo è invece correre con una Impreza e far trovare un lavoro alla fidanzata. Andrea vorrebbe tornare ad avere i figli con se mentre Simone una barca tutta sua.