Miriam ed Antoine, interpretati da Léa Drucker e Denis Ménochet, sono accompagnati dai rispettivi avvocati, siedono davanti ad una giudice che ha pochi minuti per passare in rassegna la vita di quegli sconosciuti e decidere del destino dei loro figli. L’Affido (Jusqu’à la garde) è il film di esordio di Xavier Legrand, Leone d’Argento per la migliore regia e Leone del Fututo come migliore opera prima alla 74esima edizione del Festival di Venezia. Un successo internazionale che è anche un’istantanea feroce sulla quotidianità vissuta da milioni di donne nel mondo, subendo violenza fisica e psicologica, respirata nelle incertezze, nella paura, nel dubbio alternato a compassione per il loro aguzzino, che paralizzano la vita, trasformando questa in una fuga, alla ricerca di uno spazio di libertà per ricostruire futuro presente. È anche la storia di milioni di uomini. Vittime di sé stessi, delle loro nevrosi e frustrazioni, normalissimi uomini in pubblico e mostri potenziali in privato che spesso, troppo spesso, diventano mostri in azione contro chi amano di odio.
È un film che prende allo stomaco, si spera anche quello di coloro che ancora bofonchiano di violenza domestica, di violenza assistita, di violenza di genere come di meri fatti di cronaca, sfortunate contingenze, segni di follia generica e non di vere e proprie emergenze sociale e culturale da arginare, combattere, respingere. Dai pusillanimi ai contraffattori della realtà il passaggio è di stile e sempre a favore di media, questi a volte troppo silenti, operatori di cronaca e non di critica. È tragicamente diffusa l’abitudine a giustificarla quella violenza con la pratica dei distinguo a tutti i costi, appellandosi al relativismo dei costumi, alla confusione dei ruoli, alla cattiva gestione delle libertà conquistate dalla donne; da mettere in discussione, ogni volta, secondo i paradigmi di genere, di uno solo però, quello maschile che avvelenano anche molte donne. Ciarpame sociologico per dire in fondo la stessa cosa: la donna è causa del suo male, il lato più macabro della medaglia che sull’altra faccia ha inciso invece il volto sessualmente virgineo di una donna focolare, che forse può essere indipendente ma che deve amare per sempre figli e compagno, diamanti e tacco dodici ed in quel caso, allora sì, non si tocca nemmeno con un fiore, ancora di più se quel fiore è troppo esotico.
Legrand straccia il velo della nostra condiscendenza alla realtà che accade, anche mentre se ne scrive, senza drammatizzazioni filmiche. La storia si consuma tra un gesto quotidiano e l’altro. Non guardiamo un assassino seriale in azione, ma un uomo ‘normale’, che non sa farsi amare, né sa amare, che si scatena se non visto, che piange se colto in flagranza. È il non compreso, non fermato né dagli attori istituzionali, né dai suoi prossimi per i quali è sempre ‘un brav’uomo’, ligio al lavoro, socievole. La sua pericolosità è ‘solo’ percepita come virulenza, esagitazione virile, amore infinito per la sua famiglia, la sua donna, i suoi figli. La narrazione filmica, invece, ci mostra con rigore e freddezza l’escalation di violenza psicologica prima che sfoci in tragedia ed il ritmo da documentario rende solo più aberrante la ‘normalità’ del contesto e ci riporta allo spazio fuori dalla sala cinema, in un continuum emozionale. Sì, la normalità.
Un sostantivo di recente tornato alla ribalta, a sproposito, in Italia, grazie all’autoproclamatosi martire crociato, Lorenzo Fontana, reggente del Ministero della Famiglia e della Disabilità, a cui è stato accorpato il fu Ministero delle Pari Opportunità. Al di là dei deliri omofobici, della paventata battaglia anti abortista, si è interessati a comprendere come il suo Ministero gestirà le indicazioni contenute nella recente sentenza della CEDU sul caso Talpis vs Italia, emessa il 2 marzo 2018, che condanna l’Italia su un caso di maltrattamenti in famiglia, di discriminazione di genere e di ingiustificabile lassismo istituzionale; gravi mancanze che nel 2013 costarono la vita di Ion Talpis, 19 anni, ed il tentato omicidio di Elisaveta Talpis per mano del padre/marito.
Il ricorso alla Corte di Strasburgo, seguito dall’avvocata Titti Carrano, già presidente di D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza), associazione che promuove con la Nomad Film e P.F.A. Films la distribuzione della pellicola L’Affido; così come il testo della sentenza emessa dalla CEDU siano dunque la bussola per monitorare in dettaglio e vigilare sul tema della tutela delle donne vittime di violenza. Il famigerato e fantasmagorico contratto pentaleghista ha già palesato lacune e superficialità non solo su libertà e diritti in generale, delle donne in particolare, ma pericolose sviste sui temi del Diritto di Famiglia