Sono trascorsi dieci anni dall’uscita dell’indimenticabile Entre les murs (La classe), premiato con la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 2008, Cantet ripropone un film in cui la giovinezza di uomini e donne è ancora protagonista, senza concedere nulla al cliché dei duri ma belli e buoni da riscattare. Scritto con Robin Campillo, L’Atelier sarà proiettato nelle sale italiane dal 7 giugno.
In La classe, film tratto dal romanzo autobiografico di François Bégaudeau, che nella pellicola interpreta se stesso, il regista francese narrava con estrema nitidezza le vite complesse di adolescenti incastonati come gioielli grezzi in una classe di terza media della periferia di Parigi, nel 20° arrondisment, dove il melting pot culturale si intreccia senza compiacimento alcuno ai rischi del degrado e dell’esclusione. Con L’Alelier, Cantet ci rimette di fronte un gruppo di giovani ventenni e sembra vada quasi a sbirciare le esistenze di chi nel 2008 era poco più che un bambino. Il melting pot si sposta in un Atelier dove si tiene un laboratorio di scrittura, condotto da Olivia Dejazet (Marina Foïs), un’affermata scrittrice di gialli ed ambientato in una città del sud della Francia, La Ciotat, che alla fine degli anni ’80 visse una dura stagione di lotte operaie contro la chiusura dei cantieri navali. Anche dalle finestre dell’Atelier la sagoma grigia delle torri del cantiere domina il panorama, sebbene resti simulacro di una storia che i ragazzi del laboratorio non riconoscono come propria e dalla quale si distanziano perché il presente culturale e politico passa dall’esperienza del terrorismo, dal razzismo introiettano nel dialogo quotidiano, dalla violenza normalizzata sui social network.
Quella storia di lotte, di conquiste parziali e di sconfitte clamorose, resta sullo sfondo come racconto intimo da ascoltare da chi fu protagonista, ma resta dimenticata anche da chi vive fuori dall’esperienza del laboratorio: gli altri personaggi che si incontrano fuori dal perimetro dell’Atelier. Il legame tra il dentro, spazio di conquista del sé attraverso la finzione del romanzo che i ragazzi devono scrivere, ed il fuori, è Antoine, interpretato magistralmente dall’esordiente Matthieu Lucci.
Nel laboratorio di scrittura si intrecciano storie personali che possiamo intuire: il gruppo è la rappresentazione fenotipica della nuova società europea che fa i conti con culture, tradizioni, paure, razzismi, conflitti, l’insorgenza della destra xenofoba e la sua fascinazione nel proporre ‘valori’ ai quali aderire per riempire i vuoti a cui non si sa dare più un nome. Antoine è il funambolo che passeggia da un vuoto all’altro: aggressivo, violento, solitario, contraddittorio. Quello che paradossalmente più di altri vive lo sradicamento dell’anima che può arrivare a renderti straniero in ogni luogo e farti deragliare, perdere il controllo. Mentre Cantet narra il confronto serrato ed introspettivo tra la scrittrice ed Antoine, si arriva a percepire che alla fine la mancanza di radicamento non ha nulla a che vedere con le radici, né con le tradizioni, né con le ideologie: si può essere semplicemente stranieri e nessun modello congelato può costruire un’appartenenza. L’unico luogo in cui due immensità possono coesistere è il mare: l’anima sradicata ed il mare stesso con le sue promesse d’orizzonti da superare o di abissi da nuotare. La scelta è affidata solo ad un istante, senza parole aggiunte.