Se volete vedervi sul grande schermo, l’Arte della fuga di Brice Cauvin è il film giusto. Nelle sale dal 31 maggio e liberamente ispirata al romanzo omonimo dell’autore americano Stephen McCauley, questa commedia sentimentale è ambientata all’interno di un ecosistema familiare tanto disfunzionale quanto assolutamente normale e vicino allo spettatore.
Il magistrale e minuzioso riadattamento in chiave francese – o, più generalmente, in chiave europea – del regista funziona eccome, facendo del suo film una commedia della realtà dove l’identificazione con i personaggi è inevitabile.
La narrazione si snoda attraverso tre personaggi principali, che sono anche i tre fratelli (e figli) della famiglia disfunzionale (e normale) che fa da sfondo al film. Antoine (Laurent Lafitte), dal carattere schivo ma irruento, ha lasciato l’insegnamento per un lavoro ancora più precario ed aleatorio insieme all’eccentrica migliore amica Ariel (Agnès Jaoui).
Convive da anni in una casa in affitto che presto dovrà lasciare per decidere se acquistare finalmente una casa propria con Adar e sistemarsi come vorrebbe sua madre (Marie-Christine Barrault), mentre lui continua a pensare ad una vecchia fiamma. Gérard (Benjamin Biolay) non ha ancora superato la fine del suo matrimonio ed è costretto a tornare a vivere con gli opprimenti genitori, avvolto da una melanconia di cui sembra impossibile liberarsi. Infine c’è Louis (Nicolas Bedos), il figlio prediletto e incapace di imporsi e di prendere una posizione. I suoi genitori vogliono che si sposi con la sua fidanzata perfetta Julie, ma lui è innamorato di Mathilde, la sua amante.
Sono tutti personaggi già visti: siamo noi, sono i nostri amici e conoscenti alla ricerca di una stabilità utopica (o almeno, è quello che i loro genitori vorrebbero) dove invece – come in ogni film sulla realtà europea – la parola più ricorrente è crisi nelle sue molteplici sfaccettature: economica, sentimentale, addirittura esistenziale.
Personaggi comuni, dunque, ma intorno ai quali si sviluppa l’intero film. “Adattare un romanzo straniero non è semplice. Ci siamo resi conto di quanto il lavoro necessitasse di un adattamento culturale: i francesi non si esprimono affatto come gli americani. Allora abbiamo chiuso il libro e siamo partiti da quello che ci interessava: la personalità di questi tre fratelli” dice il regista Brice Cauvin, rendendo chiaro il suo approccio con gli attori e con il casting. Ama definirsi un direttore d’orchestra, più di un regista (la sua passione per la musica, del resto, è evidente anche dal titolo, ripreso da una composizione di Bach), ma non per questo è stato meno coinvolto. Cauvin ha infatti preteso diverse ore di prova dagli attori, in modo che si creasse quella familiarità e complicità che lega i tre fratelli e che porta avanti l’intera pellicola. Cauvin è così riuscito a rendere il normale in maniera straordinaria, ma senza perdere di credibilità descrivendo una famiglia organizzata solo secondo regole puramente affettive che portano anche alla violenza e fanno emergere il paradosso comune alle famiglie europee.
Nel complesso, è un film che non ci dice nulla che non si sappia già, ma che si propone come specchio sincero di una quotidianità fatta di fughe (dalle responsabilità, dai propri genitori, da se stessi) e che istruisce su come muoversi nell’era della precarietà dalle diverse sfumature: è sempre meglio avere rimorsi che rimpianti.