Matteo Garrone torna a Cannes con una storia liberamente ispirata da un fatto di cronaca accaduto nel 1988 a Roma, nella zona della Magliana, quartiere Portuense. Pietro De Negri, conosciuto come Er Canaro, e Giancarlo Ricci, ex pugile dilettante, sono trasfigurati filmicamente in Marcello e Simoncino. Questi ultimi sono i protagonisti di una storia che, nelle parole del regista, intende stringere e sciogliere nodi esistenziali, individuali e comunitari, in una scenografia di contrasti fotografici taglienti: la stessa che ci si aspetta quando i paesaggi sono le periferie in cui viviamo; quella solita, o quasi, che consegna lo slancio poetico alla indiscutibile maestria in ripresa e che con questa prova ci incastona in scene da far west metropolitano, con tanto di sabbia e sterpaglie di corredo all’atteso sbuffo di vento.
Garrone prende i due protagonisti di un fatto di sangue e li mette in scena, o meglio li rimette in scena, alterando, nella narrazione, la realtà e i personaggi di contorno a quel fatto di normale ed efferata violenza. Dogman non è la cronistoria degli eventi che seguirono l’omicidio di Ricci, né restituisce al pubblico di oggi il romanzo giudiziario dell’omicida De Negri. Nelle dichiarate intenzioni del regista, il film è un’opera ‘universale’, ‘etica’: ‘ci mette di fronte a qualcosa che ci riguarda tutti – dichiara Garrone – le conseguenze delle scelte che facciamo quotidianamente per sopravvivere, dei sì che diciamo e che ci portano a non poter più dire no, dello scarto tra chi siamo e chi pensiamo di essere’. E come lo fa? Attraverso una narrazione molto fisica.
Marcello, interpretato da Marcello Fonte, è un uomo minuto, piccolo di statura, magro, con due occhi grandi, neri, dolci e pure incastonati in un volto scavato ed irregolare; pertanto bello nel suo restituire esattamente quello che ci si aspetta: il debole, il buon uomo che la ‘fortuna proprio non vuole baciare’, ma che ha un cuore grande così, tutto per la piccola Alida (la brava Alida Baldari Calabria) e per i cani di cui si prende cura con gesti posati e vezzeggiativi che strappano un sorriso scontato; gli unici esseri viventi, figlia ed animali, che Marcello supera in altezza.
Simoncino, vestito da Edoardo Pesce, è invece il prototipo dell’uomo peso massimo, brutto pesto, che nel quartiere si fa largo a suon di cazzotti e testate; non è un guappo o un malavitoso d’alto rango: è semplicemente un cranio svuotato, dedito a rapine grezze con compagni più o meno consenzienti, tra cui Marcello, e cocainomane; insomma un violento e basta, che strappa pure un sorriso quando in una scena lo si scopre ‘core de mamma quasi coraggio’.
I due diventano ‘amici’. Marcello se lo vorrebbe tenere buono, ma Simoncino è un cane pazzo oltre che sciolto, quindi pazienza e condiscendenza non ripagheranno Marcello: Simoncino non è da toelettatura.
Da una parte, sembra di intravedere un debole che si sforza di ‘integrarsi’, di costruire una identità e che fa delle concessioni all’illegalità spacciando cocaina, anche a Simoncino; ma ‘solo’ per racimolare soldi, con la speranza più volte riproposta di dare il meglio alla piccola Alida; dall’altra il forte che l’identità non ce l’ha proprio, non fa nulla per costruirsela perché tutto quello che ha da dire sono poche battute e dà tante botte.
Al di là della bellezza della fotografia, delle preziose scelte tecniche, questa estrema caratterizzazione fisica dei personaggi alla fine risulta stucchevole, rendendo prevedibili le soluzioni narrative che concatenano gli eventi.
Il messaggio che a tratti arriva è che la debolezza fisica di Marcello sia ciò che lo riabiliti a forza: a dispetto dell’ambigua fragilità psicologica, Marcello, l’uomo minuto, commette un omicidio per caso, per forza di cose. I ‘sì’ che pronuncia sono scusabili a priori tanto è smaccatamente impacciato. Da questo punto di vista, sembra che Marcello sia un personaggio di superficie, non superficiale, ma definito introspettivamente da poche domande: Quanto rischio? Quanto è conveniente? Quanto posso guadagnarci? È in questo senso praticamente l’alter ego di Simoncino, con la differenza che il primo gode della nostra indulgenza, appunto a prescindere. E Garrone sembra insistere proprio su questa indulgenza verso il personaggio Marcello per spostare il significato della fine: non vendetta, ma riscatto dell’uomo qualunque. Una forzatura voluta che ci restituisce improvvisamente il piccolo uomo nei panni di un Davide/Cristo solo a trascinare il Golia/Croce di borgata, questa ovviamente indifferente alla vita come alla morte.
Dogman è un film riconoscibile: lo vedi, sai chi lo ha diretto, ma ti alzi con la sensazione di essere troppo indulgente nel pensare sia l’ultimo capolavoro di Matteo Garrone.