Come i suoi due album precedenti, Different Pulses e Gold Shadow, anche Study on Falling, uscito pochi giorni fa, si rivela un lavoro profondamente introspettivo. Ma non è un album malinconico il terzo album di Asaf Avidan, è piuttosto la celebrazione della scoperta della propria identità attraverso la musica.
Sul palco dell’Auditorium della Musica di Roma questo ragazzo dal fisico esile e dall’aspetto androgino, con un taglio alla moda e qualche tatuaggio, gioca con le canzoni, le ricrea e costringe la sua voce versatile, potente oppure dolce, che evoca vocalist femminili come Nina Simone, Billie Holiday e Ella Fitzgerald, ad acuti dolenti per poi planare in improvvise quieti melodiche.
Jon Pareles del New York Times lo ha descritto come un ibrido speciale. “Un artista che scrive come Leonard Cohen, canta come Robert Plant e ha il carisma da cabarettista”. Mentre i paragoni si sprecano, scopriamo che la storia di Avidan è intrigante quanto la sua voce. È nato a Gerusalemme. I suoi genitori erano diplomatici per il Foreign Office israeliano e ha vissuto gran parte della sua infanzia tra Giamaica e New York. Si è completamente “formato” da solo, senza mai prendere una sola lezione di canto. All’età di 26 anni ha iniziato ad esibirsi in giro per Israele accompagnato solo da una chitarra e un’armonica.
Ma “l’angelo rauco” è anche un virtuoso della chitarra e del piano, un talento magnetico e multiforme, capace, insieme ai suoi musicisti, di far salire il pubblico su una montagna russa musicale. A New York, la città che lo ha visto crescere, Asaf è voluto tornare per trovare il suono all’American, un mix di blues e folk con quel riverbero tremolato vintage che regge il peso specifico di testi intimi, strani e a tratti inquietanti. Ad assisterlo produttori del calibro di Mark Howard (Dylan, Waits), il batterista Jim Keltner (Lennon, Presley) e il bassista Larry Taylor (Canned Heat, The Monkeys)
Ai suoi concerti il pubblico balla molto. All’Auditorium di Roma è diverso. Si assiste ai live stando seduti anche se si fa molta fatica a pubblico rimanere sulla propria poltrona. “Dormite o vi state divertendo?”, chiede ad un certo punto Avidan tra il divertito e il sorpreso. Allora ci si lascia andare a qualche ondeggiamento della testa non gradito a chi nelle file dietro preferisce guardare il concerto attraverso lo schermo del proprio cellulare. Ma l’atmosfera c’è, questo si avverte subito e il dialogo con il pubblico presente in Sala Sinopoli è costante.
Con Green and Bue, Avidan osa dirci che l’amore non è un patto duraturo, perché anche le storie più stabili, belle e solide nascondono ombre e fantasmi che porteranno inevitabilmente alla fine della stessa storia d’amore. Un umore che ritorna anche nella canzone To Love Another. Le parole si uniscono a veloci riff di chitarra per un finale liberatorio: “Preferisco l’amore alla paura” …I tormenti dell’anima. Ecco il tema preferito di un uomo tanto famelico quanto il suo pubblico che incarna e magnifica su “My Old Pain” e “The Golden Calf”.
Ma c’è spazio anche per raccontare un’immagine della Bibbia, intesa non come fonte religiosa ma per ricordare il momento solenne della consegna a Mosè della tavola dei dieci comandamenti. Perché nessuno è profeta in patria, sembra volerci dire Avidan. Non definitelo cantante israeliano ma che viene da Israele. Nel 2015 intervistato del quotidiano francese Le Monde ha dichiarato: “Non mi sento davvero israeliano. Siamo sempre i perseguitati, ed è per questo che non sono più interessato a vivere in Israele”. Parole che hanno fatto infuriare Tel Aviv. Ma lui non si è fatto intimorire e ha calcato la mano. “Con la mia musica non rappresento Israele. Non sono un politico. Non sono un diplomatico. E come figlio di diplomatici non ho mai avuto velleità da ambasciatore di messaggi politici”.