ll Roma Summer Fest è tornato. Più di un evento stagionale: è la trasformazione di una città — una volta culla di pietra e memoria — in qualcosa di vibrante, presente, acceso. In sottofondo, si avverte però anche un altro ritmo: quello di una capitale europea che da anni cerca una voce culturale riconoscibile, fuori dagli stereotipi da cartolina. E la musica, forse più di ogni altra cosa, sembra aver trovato il modo di dirlo.
Nato come rassegna estiva, il Summer Fest si è evoluto in qualcosa di più stratificato. È uno specchio della città e delle sue tensioni: una Roma che si scopre aperta, porosa, internazionale, ma che allo stesso tempo non ha mai smesso di suonare nella sua lingua — diretta, stonata, reale.
E così, a partire dal 5 giugno, l’Auditorium Parco della Musica diventa un corpo vivo. Al centro, la Cavea, con la sua forma ellittica che sembra pensata per contenere tempeste. Intorno, nuove propaggini: Casa del Jazz, Giardini Pensili, altri suoni, altri pubblici. Una diffusione che racconta una città che non sta ferma, che si dilata per contenere stili, generazioni, contraddizioni.
Sul palco passano Sting, Nick Cave, Patti Smith, Ludovico Einaudi, Franz Ferdinand, Jamie xx, ma sarebbe riduttivo elencarli. Perché ciò che colpisce non è solo la qualità della lineup, ma il suo equilibrio instabile tra icone e sperimentazione, melodia e rumore, nostalgia e ipotesi di futuro.
Nel programma si intravede un filo narrativo: l’erosione delle categorie musicali classiche. Pop e jazz, elettronica e cantautorato, rock e trap: tutto si mescola, si contamina. E Roma ascolta. A volte con attenzione, a volte distratta. Ma ascolta.
Intanto, la musica italiana non fa da cornice. È struttura. La presenza di artisti come Afterhours, Daniele Silvestri, Diodato, CCCP, Loredana Bertè non è riempitiva. È dichiarazione: raccontare il paese dentro un festival internazionale. Una geografia emotiva, in cui anche il pop mainstream trova spazio accanto alle derive più sperimentali. E in questo equilibrio fragile — tra locale e globale — si misura molto del potenziale culturale della città.
Anche Roma deve fare i conti con una identità culturale in trasformazione. E i festival sono il luogo dove queste tensioni si manifestano con più evidenza. Chi include? Chi esclude? Chi può permettersi di esserci?
Le nuove sedi, come la Casa del Jazz, sembrano rispondere a una richiesta di decentralizzazione. Ma è un processo ancora in corso. Le linee di frattura — sociali, generazionali, economiche — si sentono anche nella musica. Forse proprio nella musica. Eppure, tra tutte queste crepe, c’è anche una possibilità. Perché ogni sera, dentro la Cavea, qualcosa succede. E non è solo intrattenimento. È risonanza. È il suono di una città che si ascolta mentre prova a dire chi è.