In Until Dawn, al cinema dal 25 aprile, un gruppo di amici si ritrova in una remota località montana. All’inizio, sembra solo un viaggio in compagnia, un’avventura da ragazzi. Ma quando il benzinaio che incontrano sulla strada sussurra qualcosa di inquietante, nessuno di loro sa che quella piccola deviazione sarà l’inizio di un incubo senza fine. Il regista David F. Sandberg riesce a combinare l’orrore del sovrannaturale con la più terribile delle realtà: il dolore umano.
La struttura del film, che ruota attorno a un loop temporale, costringe i protagonisti a rivivere incessantemente la stessa notte, facendo loro affrontare, una dopo l’altra, le proprie paure più oscure. Ma non è solo la ripetizione della tragedia a fare da sfondo. Il sovrannaturale non è solo una minaccia; è uno specchio, un riflesso della lotta interiore di ciascun personaggio. Il terrore diventa il mezzo per rivelare qualcosa di profondo nell’animo dei protagonisti: una consapevolezza crescente che le loro scelte passate non possono essere cancellate, e ogni errore sarà pagato. Il loop temporale diventa non solo un meccanismo narrativo, ma un simbolo delle cicatrici che ognuno di noi porta con sé, senza possibilità di fuga.
Non ci troviamo dentro una semplice storia di paura. Ogni volta che un personaggio muore e poi risorge, la sua condizione non è mai la stessa. Le cicatrici, sia fisiche che psicologiche, non svaniscono. Ogni morte, ogni rinascita, è un passo doloroso verso una redenzione che sembra sempre sfuggire.
Until Dawn si distingue per come Sandberg riesce a mescolare tensione e leggerezza, senza mai cedere alla tentazione di prendersi troppo sul serio. Nonostante l’atmosfera costantemente carica di angoscia, ci sono momenti in cui il film permette una pausa, un sorriso, o una riflessione più leggera. Sandberg non cerca di rivoluzionare il genere horror, ma lo usa per costruire una trama che esplora come le nostre scelte passate e le ombre che ci perseguitano possano davvero influenzare il nostro destino.