Presentato nel 2024, Sotto le foglie è un film che potrebbe tranquillamente appartenere a qualsiasi momento della filmografia di François Ozon. Difficile trovare un regista europeo altrettanto prolifico e al tempo stesso così eclettico: dal 1998 a oggi, Ozon ha realizzato quasi un film all’anno, attraversando generi e atmosfere senza mai rinunciare alla propria identità autoriale. Eppure, con ogni nuova opera, trova il modo di modulare il suo sguardo, talvolta giocoso, altre volte amaro, sulle fragilità dell’essere umano.
Sotto le foglie, dal 10 aprile al cinema, si inserisce in questa traiettoria come un’opera apparentemente minore, ma in realtà densissima sul piano tematico. Se Mon crime, il film precedente, era un affilato esercizio di stile in forma di thriller processuale ambientato nella Parigi degli anni Trenta, qui Ozon si sposta in tutt’altro paesaggio: la campagna tranquilla e rigogliosa della Borgogna, teatro però di un’intimità spezzata.
Protagonista è Michelle (una straordinaria Hélène Vincent), un’anziana pensionata che vive sola in una grande casa immersa nel verde. L’arrivo della figlia Valerie (Ludivine Sagnier), in visita da Parigi per affidarle il piccolo Lucas durante le vacanze, fa da innesco al film. Il loro rapporto, si capisce da subito, è incrinato da tensioni mai del tutto elaborate. Ma è un gesto domestico e quotidiano – una raccolta di funghi nel bosco, cucinati per il pranzo – a far precipitare la situazione.
Valerie finisce in ospedale dopo averli mangiati. La diagnosi parla chiaro: avvelenamento da funghi. E la figlia, con una durezza improvvisa, accusa la madre di averlo fatto di proposito. È il momento in cui Sotto le foglie smette di essere un semplice dramma familiare per scivolare lentamente verso un’altra forma, più ambigua, più stratificata.
La narrazione procede per ellissi e silenzi: Ozon, più che puntare sulla suspense, costruisce una tensione interna ai personaggi, lasciando che lo spettatore li osservi da vicino senza mai rivelare del tutto le loro intenzioni. Michelle è travolta dal senso di colpa, da un lato per il proprio passato di madre imperfetta, dall’altro per la possibilità concreta di essere privata dell’affetto del nipote. E se inizialmente sembra una vittima delle circostanze, il film semina dubbi e incertezze, chiedendoci di sospendere il giudizio.
Nella seconda parte, Sotto le foglie si apre a un sottile gioco di rivelazioni, mai clamorose, sempre suggerite. Il ritmo si fa ipnotico, quasi rarefatto, e la campagna della Borgogna si trasforma in uno spazio mentale, dove ogni gesto – cucinare, camminare, guardare fotografie – assume il peso di una confessione muta. In questo senso, Ozon mette in scena il tempo della memoria e del rimpianto come una forma di thriller psicologico, ma privo di qualsiasi enfasi.
È un film che trova la sua forza nella misura, nella tenerezza trattenuta, nel modo in cui riesce a restituire la complessità di un personaggio femminile spesso relegato ai margini del cinema: una donna anziana, ancora affamata di legami, di fiducia, di senso. Michelle – e l’interpretazione di Hélène Vincent lo conferma – è una presenza che resta con lo spettatore ben oltre i titoli di coda.
Accanto a lei, Josiane Balasko regala un ritratto toccante e ironico dell’amica di sempre, mentre Pierre Lottin, nel ruolo secondario ma incisivo di un giovane vicino di casa, aggiunge un ulteriore strato a questa piccola mappa degli affetti e delle solitudini.
Sotto le foglie non è un film che cerca l’applauso. È una riflessione discreta ma acuta sul tempo che passa, sulle incomprensioni mai risolte, sul desiderio ostinato di riconciliazione. In un certo senso, è uno dei film più personali di François Ozon. O forse, semplicemente, è uno dei suoi più maturi.