C’è chi fugge dalla guerra, chi dalla società, chi da se stesso. Negli anni ’30, un gruppo di europei approda sull’isola disabitata di Floreana, nel cuore delle Galapagos, convinto di poter ricominciare da zero. Ma quando l’unico legame tra i nuovi arrivati è l’insofferenza reciproca, il paradiso si trasforma in una trappola. Eden, il nuovo film di Ron Howard, racconta questa storia vera come un survival thriller dalle tinte sempre più cupe, dove l’isolamento non porta alla pace, ma alla violenza.
I primi a mettere piede sull’isola sono Friedrich Ritter (Jude Law), medico-filosofo nichilista, e Dora Strauch (Vanessa Kirby), sua compagna, stanca dell’Europa e della sua malattia. Vogliono creare una nuova vita lontano da tutto, senza leggi né obblighi sociali. Ma il sogno dura poco. I Wittmer — una giovane famiglia tedesca composta da Heinz (Daniel Brühl), la moglie Margaret (Sydney Sweeney) e il loro figlio — li raggiungono in cerca dello stesso ideale. Solo che sull’isola non c’è spazio per due utopie, e i Ritter non sono tipi da condividerla.
La tensione cresce, ma il vero punto di rottura arriva con la comparsa della baronessa Eloise de Wagner Wehrhorn (Ana de Armas). Ricca, teatrale, visionaria, sbarca sull’isola con due amanti armati e un progetto folle: costruire un hotel di lusso per ospiti internazionali. Da quel momento, la fragile convivenza implode. Gelosie, sospetti, minacce velate. Case incendiate, coltivazioni rovinate. Tutti osservano tutti, nessuno si fida più di nessuno.
Howard racconta tutto questo con un tono più oscuro del solito. Dopo una carriera fatta di drammi “puliti” e a lieto fine, qui si immerge nel caos umano senza freni: corpi nudi sotto il sole impietoso, malattie, ossessioni, rituali disturbanti. L’isola non ha vie d’uscita, e nemmeno il film ne offre. Non c’è speranza, non c’è redenzione. Solo un lento scivolare nella paranoia.
Il cast è la vera forza del film. Jude Law è perfettamente a suo agio nel ruolo del medico brillante e profondamente disturbato, un uomo che predica la superiorità morale ma non riesce a tollerare nessuno. Vanessa Kirby gli dà il giusto contrappeso, fragile e testarda. Ana de Armas è irresistibile: la sua baronessa è sopra le righe, sensuale, pericolosa, ed è impossibile staccarle gli occhi di dosso. Sydney Sweeney sorprende ancora una volta, con una performance intensa e inquieta, soprattutto nelle sequenze legate alla gravidanza.

Dal punto di vista tecnico, però, Eden non è perfetto. La fotografia, firmata da Mathias Herndl, non valorizza appieno la potenza visiva delle Galapagos. I colori sono spenti, il digitale troppo evidente. Alcuni momenti sembrano quasi da serie streaming, più che da grande schermo. Il montaggio è lento, il ritmo altalenante, e il sound design poco curato in alcune scene chiave. Si percepisce che il film è stato girato in fretta, con un budget limitato e lontano dai grandi studi.
Eppure, nonostante tutto, Eden funziona. Non è un film da premio, forse nemmeno da culto, ma è qualcosa di diverso nel percorso di Howard. Più sporco, più disturbante, più coraggioso. Parla di isolamento, del sogno coloniale che si sgretola, della follia che nasce dal controllo e dalla paura. È una storia che guarda al passato ma ha più di un’eco nel presente. Non sarà il film che cambia la carriera del regista, ma è il segno che anche chi viene dal mainstream può perdersi — e ritrovarsi — su un’isola.
Al cinema dal 10 aprile. Voto. 4/5