Sono passati 50 anni da quando gli Stati Uniti hanno abbandonato il Vietnam. Non ci sono stati trionfi, nessuna vittoria da celebrare. Solo elicotteri che decollavano in fretta dai tetti di Saigon, lasciando dietro di sé il caos, il sangue e la disperazione. La guerra aveva già presentato il suo conto: milioni di vietnamiti uccisi, villaggi rasi al suolo, giungle incenerite dal napalm. Tra gli americani, decine di migliaia di soldati morti, centinaia di migliaia di feriti, una generazione intera segnata dal trauma. Il 30 aprile 1975 Saigon cadde e il conflitto si concluse. Ma nessuno ne uscì davvero vincitore.
Apple TV+ ha scelto di raccontare questa storia con una nuova docuserie in sei episodi, che non aggiunge nuove rivelazioni alla storia del Vietnam, ma offre qualcosa di altrettanto potente: una prospettiva umana. Attraverso testimonianze dirette e filmati d’archivio poco visti, sia di troupe televisive che di soldati e piloti, la serie ci porta dentro l’esperienza reale del conflitto.
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È un viaggio immersivo, spesso scioccante, reso ancora più intenso dalla voce narrante di Ethan Hawke. Il primo episodio, Boots on the Ground, ci porta nei tunnel del Viet Cong, dove C.W. Bowman e Gary Heeter, due “topi di galleria”, si infilavano nel buio, sapendo che a ogni passo potevano essere colpiti, accoltellati o dilaniati da una trappola esplosiva. Oggi, sono due vecchi amici che vanno a pescare insieme, ma il passato non si cancella: Bowman ricorda il momento in cui ha fatto a pezzi un mitragliere vietcong con un machete. “A quel punto avevo capito di essere impazzito,” dice con amarezza. Altri episodi raccontano l’orrore dell’Offensiva del Tet del 1968, quando il Viet Cong attaccò più di 100 città in una sola notte. Paul Healey, poliziotto militare, si trovò intrappolato nell’assalto all’ambasciata americana e finì con 13 uccisioni in un giorno. “Ho solo fatto il mio dovere,” racconta, senza emozione. John Bagley, DJ dell’esercito, dallo stile simile a quello reso famoso da Robin Williams in Good Morning, Vietnam, venne travolto dal massacro di Hue. Colpito a una gamba, si trascinò per chilometri fino a un avamposto americano. Nessuno sapeva cosa stesse accadendo in città, finché la giornalista Thea Rosenbaum non riuscì a lasciare le rovine e a inviare il suo reportage. Ma la serie dà spazio anche alla voce dei vietnamiti. Vu Minh Nghia (nella foto con Bay Hon) racconta come gli americani abbiano distrutto la sua città, alimentando il suo odio. Ricorda in lacrime il momento in cui fu ferita e il suo gruppo venne catturato. Altri vietnamiti descrivono la brutalità delle truppe americane, le case incendiate, i civili uccisi a sangue freddo. Malik Edwards, ufficiale afroamericano dei Marines, spiega che l’ordine era chiaro: “Se ricevi un colpo dal villaggio, radilo al suolo.” E sottolinea come la guerra fosse anche una questione di classe e razza: “I ragazzi neri e poveri venivano mandati al fronte, mentre i figli dei ricchi evitavano la leva.” Lui, alla fine, lasciò i Marines e si unì alle Pantere Nere. Non era solo una guerra contro gli americani, ma anche una guerra civile. Huan Nguyen aveva nove anni quando il Viet Cong massacrò la sua famiglia. Uno degli assassini fu l’uomo notoriamente giustiziato con un colpo alla testa davanti alle telecamere, in un’immagine che cambiò per sempre la percezione della guerra in America. Con il tempo, il peso del conflitto si fece insostenibile. Le proteste negli Stati Uniti divennero una forza inarrestabile, e persino dentro l’esercito la resistenza crebbe. L’ufficiale dei Marines Bill Broyles (nella foto) partì per il Vietnam con l’idea di servire con onore, ma si trovò a fronteggiare un ammutinamento. I suoi uomini minacciavano di “fraggare” la sua tenda con una granata. Il suo operatore radio Jeff Hiers gli disse che nessuno avrebbe più combattuto. Così Broyles iniziò a trasmettere falsi messaggi radio per evitare il massacro dei suoi soldati. Oggi è uno sceneggiatore a Hollywood. Il crollo dello sforzo bellico fu inevitabile. Nell’aprile del 1975, con le truppe nordvietnamite ormai a Saigon, gli ultimi americani si arrampicavano sugli elicotteri in fuga. Ma non tutti erano pronti ad arrendersi. Nhan Lee, figlio di un pilota militare sudvietnamita, riuscì a impadronirsi di un piccolo Cessna e a portare in salvo la sua famiglia. Quando si avvicinò alla USS Midway, il comandante della portaerei, Larry Chambers, diede un ordine che gli sarebbe costato caro: gettare in mare elicotteri militari per creare spazio per l’atterraggio dell’aereo. Quella decisione costò alla Marina americana 100 milioni di dollari. Ma Chambers fu promosso e divenne ammiraglio. Cinquant’anni dopo, il Vietnam è un altro paese. Ma per chi l’ha vissuta, la guerra non è mai finita. E il mondo, come sempre, ha guardato troppo tardi, o peggio, ha scelto di non guardare affatto.