Acab, La produzione targata Cattleya e diretta da Michele Alhaique, disponibile su Netflix dal 15 gennaio 2025, si ispira all’omonimo libro di Carlo Bonini e al film diretto da Stefano Sollima, che in questa produzione ritorna come produttore esecutivo.
E se nella serie il caos è una forza inarrestabile che travolge le vite dei protagonisti, nella realtà italiana non è meno potente. Gli episodi di violenza e abuso di potere da parte delle forze dell’ordine raccontati nella fiction trovano un’eco inquietante nei fatti di cronaca, come quelli di Pisa, rivelando quanto sia radicato e pervasivo il problema.
In ACAB, il Reparto Mobile non è un semplice corpo di polizia: è una tribù, un microcosmo chiuso in cui il vincolo di fratellanza diventa il vero confine tra sopravvivere e crollare. Ma è anche un sistema che si alimenta di contraddizioni, dove l’uso della forza diventa un’abitudine difficile da mettere in discussione.
Lo stesso accade nella realtà, dove episodi di abuso, come quelli avvenuti al G8 di Genova o nelle carceri italiane, si ripetono senza che il sistema subisca veri cambiamenti. E mentre i vertici delle forze dell’ordine difendono l’operato degli agenti, i segnali di disconnessione tra istituzioni e cittadini si fanno sempre più evidenti.
Come la serie mostra con crudezza, il vero nemico non è solo il caos delle piazze, ma anche quello che abita dentro chi indossa una divisa. Sei episodi mettono in luce un problema centrale: il disallineamento tra chi esercita il potere e chi lo subisce. In un paese dove il reato di tortura è stato introdotto solo nel 2017 e i codici identificativi per gli agenti sono ancora inesistenti, la risposta alle proteste sembra ancorata a una mentalità che privilegia il controllo alla comprensione.
In ACAB, la lotta tra vecchia e nuova scuola è simbolizzata dal confronto tra Mazinga, Marco Giallini, e Michele, interpretato da Adriano Giannini. Uno rappresenta la forza bruta, l’altro un tentativo di riforma. Sono celerini, non investigatori o poliziotti tradizionali.
Riflettendo sul suo personaggio, Giallini afferma: “Ho ritrovato Mazinga in un contesto completamente diverso rispetto a quello di 14 anni fa. Questo cambiamento si riflette anche nel modo in cui il personaggio affronta e percepisce il mondo che lo circonda”.
Unica donna della squadra, Marta è interpretata da Valentina Bellè. L’attrice racconta il lavoro svolto sul suo personaggio: “Ho cercato di mettere da parte la mia femminilità, immaginando Marta come una persona che si protegge trasformandosi, lasciando emergere il suo lato più ‘maschile’.”
La loro missione non è arrestare criminali, ma immergersi nel caos delle piazze: dai cantieri ai porti, dagli stadi alle strade in protesta. Come palombari che affrontano l’oscurità, vivono in uno spazio grigio dove la legge si piega alle necessità del momento e la violenza diventa l’unico strumento per mantenere un fragile equilibrio.
La violenza diventa un meccanismo difensivo, ma anche una spirale che rischia di annientare chi la esercita. I personaggi di ACAB sono prigionieri di un sistema che li spinge a utilizzare la forza per ristabilire l’ordine, anche quando questo significa andare contro la loro stessa umanità.
Allo stesso modo, le forze dell’ordine reali sembrano spesso intrappolate in una cultura che privilegia la repressione rispetto al dialogo. “ACAB non vuole giudicare – spiega Alhaique – ma invita lo spettatore a interrogarsi su cosa significhi vivere e lavorare in una zona grigia, dove la legge e la morale si intrecciano pericolosamente”.
Ma a che costo? È proprio questa la domanda che la serie pone con coraggio. ACAB non è un racconto giudicante. Piuttosto, invita il pubblico a osservare da vicino le vite di chi è chiamato a mantenere l’ordine, permettendogli di sedersi in mezzo a loro, in un mix di empatia e disagio.
“Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento”, aveva dichiarato Mattarella in relazione alle manganellate di Pisa del 23 febbraio del 2024. Una frase che si applica non solo alla realtà, ma anche alla narrazione di ACAB. Perché alla fine, che si tratti di piazze reali o fittizie, la violenza non risolve i problemi: li amplifica.
La serie ci lascia con una domanda cruciale: è possibile mantenere l’ordine senza perdere l’umanità? Secondo Sollima la storia di Acab richiede di mettere da parte il giudizio morale, per incontrare e conoscere i personaggi senza giudicarli. Nella finzione, come nella vita reale, la risposta non è semplice. Ma ciò che è certo è che, senza un cambiamento radicale, il confine tra legge e caos continuerà a essere pericolosamente sottile.