Il cinema italiano trova un nuovo slancio nella storia con L’abbaglio, ma lo fa ribaltando l’ovvio, cancellando l’agiografia e lasciando che emergano i frammenti più umani e disillusi. Roberto Andò dirige un’opera che rende invisibili le grandi narrazioni patriottiche per illuminare i dettagli, gli errori, i paradossi.
Siamo nel 1860, anno di conquiste e amarezze. Al centro della scena, non troviamo un Garibaldi monumentale, ma un uomo circondato da dubbi e compromessi. Toni Servillo interpreta il colonnello Orsini, figura dimenticata ma decisiva, che con astuzia e disperazione inventa un diversivo per distrarre il nemico. La sua manovra diventa una metafora della strategia stessa del Risorgimento: un gioco di inganni, illusioni e speranze spezzate. Andò cancella i contorni netti della storia per raccontare ciò che si nasconde tra le pieghe del mito garibaldino.
Il risultato è un intreccio di storie e contraddizioni, incarnato da due personaggi improbabili: Domenico, interpretato da Salvo Ficarra, un contadino che sogna di tornare alla sua terra, e Rosario, interpretato da Valentino Picone, un illusionista mosso più dall’interesse personale che dagli ideali. Entrambi rappresentano una dimensione umana e paradossale del Risorgimento. Non eroi, ma antieroi, più vicini alle figure grottesche di Luigi Pirandello o alle ombre tragicomiche di Samuel Beckett che ai busti marmorei del patriottismo. Il loro cammino, fatto di fughe, esitazioni e incontri, sembra sfiorare i confini del sogno, offrendo uno sguardo inedito sul mito storico.
Il titolo del film è una dichiarazione provocatoria. L’abbaglio non vuole negare l’importanza storica della Spedizione dei Mille, ma interroga il prezzo pagato per la creazione di un mito. In un momento in cui la storia italiana è spesso riscritta con intenti celebrativi, Andò preferisce esplorare l’ambiguità: cosa resta quando togliamo i nomi dai luoghi, le medaglie dagli uomini, i proclami dalle gesta?
I paesaggi polverosi diventano scenografie di una narrazione che oscilla tra il dramma e il grottesco. Non è un caso che le canzoni popolari, come nel western di John Ford, accompagnino la marcia dei Mille, rendendo la narrazione universale, quasi archetipica. Il Garibaldi di Andò è un uomo del popolo, circondato da persone comuni che, con i loro piccoli gesti, cambiano la storia. La spedizione diventa una sinfonia imperfetta, dove ogni voce conta, anche quelle stonate o incerte.
Il colonnello Orsini, Rosario e Domenico diventano simboli di un’Italia che, allora come oggi, vive sul confine tra illusione e realtà. In una scena chiave del film, Toni Servillo osserva il mare dalla costa siciliana, mentre la strategia che ha orchestrato prende forma. Il suo sguardo sembra risuonare con le parole di Lampedusa in Il Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.” È il cuore di L’abbaglio: la consapevolezza che ogni rivoluzione è anche una negoziazione, un atto di fede in un futuro che non sarà mai perfetto.
Il film arriva al cinema dal 16 gennaio con 01 Distribution