Nel 1918, Edward, un giovane funzionario britannico assegnato al consolato di Rangoon, riceve una notizia che scuote la sua routine: Molly, la sua fidanzata da ben otto anni, sta attraversando mezzo mondo per raggiungerlo e finalmente celebrare il matrimonio tanto atteso. La risposta di Edward, tuttavia, è tutto fuorché quella di un uomo pronto a pronunciare il fatidico “sì”. Spaventato dall’idea del legame definitivo o forse da qualcosa di più indefinibile, Edward decide di fuggire. Il suo viaggio si trasforma in un’improvvisata fuga verso l’ignoto, una sorta di “grand tour” attraverso l’Asia, che lo conduce in un’avventura frenetica da una città all’altra: dalla Birmania alla Cina, dalle Filippine al Giappone e fino al Vietnam. Ma Molly, determinata e cocciuta, si rifiuta di credere che il suo promesso sposo voglia realmente sfuggirle. Convinta che si tratti solo di una fase, o forse spinta da un misto di amore e orgoglio ferito, parte a sua volta all’inseguimento, trasformando quella che poteva essere una semplice riunione romantica in una complicata e avventurosa caccia sentimentale.
Alla base di Grand Tour, dal 5 dicembre, premiato con il riconoscimento per la Miglior Regia al Festival di Cannes, c’è una genesi che riflette in pieno il carattere multiforme e imprevedibile del film stesso. Miguel Gomes, il regista, ha infatti iniziato a raccogliere materiale visivo durante un lungo viaggio in Asia, con l’intenzione di realizzare un progetto documentaristico. Tuttavia, l’arrivo della pandemia ha interrotto bruscamente i suoi piani, lasciandolo con un ricco archivio di immagini, ma senza una storia a cui ancorarle. È qui che Gomes opera la sua magia: decide di trasformare quelle sequenze frammentarie in una narrazione, cucendo loro addosso una trama che, per quanto romantica e immaginaria, si adatta come un abito su misura. Al tempo stesso, però, Grand Tour può essere letto anche al contrario, come un viaggio visivo che ha trovato nella trama un pretesto per essere raccontato. Questa ambiguità è il cuore pulsante del film, un’opera che non si lascia imprigionare in schemi narrativi convenzionali.
Quello che ne emerge è un viaggio epico e picaresco, tragicomico e intriso di malinconia, che si muove tra i confini di tempi e luoghi. Gomes alterna con abilità le atmosfere del passato – con una fotografia in bianco e nero che romanticizza i palazzi coloniali e le strade polverose – e quelle del presente, dove le città moderne appaiono in sprazzi di colore, ma senza mai cadere nella trappola dell’esotismo. Il suo approccio visivo, affidato in parte al celebre direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom, gioca con contrasti e paralleli. I paesaggi attraversati da Edward nella sua fuga – fiumi scintillanti, foreste selvagge, stazioni ferroviarie affollate – dialogano con le immagini del sud-est asiatico contemporaneo, riprese non come cartoline turistiche, ma come squarci di vita vissuta: un negoziante che accende una sigaretta, un musicista di strada che si prepara a suonare, un camionista che carica la sua merce.
La narrazione segue due binari paralleli. La prima metà del film si concentra sulla fuga di Edward, alimentata dai telegrammi sempre più ansiosi di Molly, che sembrano spingerlo da un luogo all’altro con una frenesia crescente. Rangoon, Singapore, Bangkok, il Giappone: ogni destinazione diventa una tappa di un viaggio che sembra non avere una meta. Gomes interseca queste scene con scorci della vita quotidiana nelle stesse città, ma nel loro stato attuale. Il risultato è un gioco temporale dove il confine tra passato e presente si sfuma: un ballo reale a Bangkok, accompagnato dalle note del Bel Danubio Blu, si dissolve in un ingorgo di motociclette nella città odierna, con la musica che continua a fluire in sottofondo, trascinando lo spettatore in un movimento ipnotico. Ogni scena è una sorpresa, un momento di geniale discrezione che mescola nostalgia e ironia.
La seconda metà del film sposta l’attenzione su Molly, ora protagonista del suo personale “grand tour”. Arrivata a Rangoon, scopre di aver mancato Edward per un soffio e decide di proseguire il viaggio, seguendo le sue tracce. La sua avventura è segnata da ostacoli e incontri surreali: proposte di matrimonio non richieste, difficoltà linguistiche, malanni fisici. Ma se il viaggio di Edward era dominato dalla fuga e dall’incertezza, quello di Molly ha una nota più determinata, quasi testarda, che riflette il suo carattere. Gomes costruisce un parallelo tra i due percorsi, ma è chiaro che il vero protagonista è il viaggio stesso, con le sue mille sfumature.
Il ritmo del film è deliberatamente lento, quasi meditativo, e questo potrebbe mettere alla prova la pazienza di alcuni spettatori, soprattutto nella seconda parte, dove la trama si fa meno incisiva e più riflessiva. Ma chi è disposto a lasciarsi trasportare dalla sua atmosfera e dalle sue immagini scoprirà un film che sa sorprendere fino all’ultimo, con un finale che rompe ogni aspettativa e si chiude su una scelta musicale tanto improbabile quanto perfetta. Grand Tour non è un film per chi cerca risposte facili o conclusioni nette. È un puzzle concettuale, un miscuglio di sensazioni e riflessioni che invita lo spettatore a perdersi – e forse a ritrovarsi – lungo la strada. Un’esperienza cinematografica unica, che, come il viaggio stesso, vale più per ciò che si scopre lungo il cammino che per la destinazione finale.