Sei pazienti, sei disturbi ossessivo-compulsivi, un solo appuntamento nello studio di un luminare della psicoterapia. Sembra l’incipit di un incubo logistico e invece è l’inizio di Terapia di Gruppo di Paolo Costella, una commedia sfaccettata che ci mette davanti alle nostre manie, ansie e fragilità, riflettendo su di esse con uno sguardo che alterna ironia e profondità.
Tratto dal soggetto originale di Laurent Baffie e dall’adattamento spagnolo di Juliàn Quintanilla Toc Toc diretto da Vicente Villanueva il film è una vera pièce teatrale che riunisce personaggi che incarnano alcuni dei disturbi ossessivo-compulsivi più comuni (e forse riconoscibili): dalla sindrome di Tourette al controllo compulsivo, dall’ossessione per la pulizia alla paura di essere tagliati fuori. Un microcosmo di nevrosi che, attraverso dialoghi serrati e situazioni imprevedibili, riesce a coinvolgere e far riflettere, mostrando che spesso dietro le nostre manie si nascondono traumi, insicurezze e paure condivise.
Alla guida di questo improbabile gruppo c’è Federico, interpretato da un sorprendente Claudio Bisio, che porta sullo schermo la sindrome di Tourette con una leggerezza mai superficiale. “Non sono mai stato in terapia, ma credo che parlarne attraverso questo personaggio sia stato terapeutico a modo suo,” racconta Bisio. Federico, un uomo apparentemente risolto, è in realtà un padre e professionista segnato dal bullismo subito da bambino, un’esperienza che risuona nel suo turpiloquio incontrollato e nei tic che non può dominare.
Accanto a lui, Bianca (Valentina Lodovini) è il volto di un dolore silenzioso, quello di una vittima di revenge porn. La sua ossessione per la pulizia e il rifiuto del contatto fisico nascono da un trauma profondo, che l’attrice interpreta con una delicatezza commovente: “Bianca mi ha toccato il cuore. Ammettere di avere un disagio è già un primo passo importante. Il revenge porn non è solo un crimine, è una violenza che toglie tutto: la dignità, la fiducia negli altri, la libertà di essere te stessa. Non dobbiamo mai permettere a nessuno di spegnere la nostra voce o farci sentire sbagliate per colpe che non sono nostre”.
Non meno toccante è Annamaria, interpretata da Margherita Buy, giudice maniacale ossessionata dal controllo, che fatica ad ammettere di essere lì per una terapia. “Riconoscersi vulnerabili è qualcosa di potente,” spiega la Buy, che rende il personaggio tanto rigido quanto umano, un simbolo della difficoltà di abbandonare il controllo per accettare sé stessi.
Otto (Leo Gassmann) incarna la generazione iperconnessa e terrorizzata dalla FOMO, la paura di essere esclusi. “Mi capita spesso di uscire per il timore di perdermi qualcosa,” confessa Gassmann, il cui personaggio è legato indissolubilmente al suo cellulare, emblema di un’ansia lavorativa e sociale che appartiene a molti giovani.
Lucia Mascino, che interpreta Sonia, una segretaria logorroica e nevrotica, racconta: “Si ride tanto, ma questo è un film che ha spessore, un cuore pulsante e tanta qualità. Per me è stata un’esperienza di grande libertà, anche perché il regista mi ha dato carta bianca per esplorare il personaggio. È una storia che ti invita a ‘sposarti da te’, ad accettarti così come sei, e a ridimensionare le cose che spesso ci schiacciano. È importante che esca adesso, in un momento in cui vediamo crescere una nuova ondata di bullismo, giudizio e quella pericolosa abitudine di puntare il dito contro gli altri.”
E poi c’è Lilli (Ludovica Francesconi), una ragazza che, dopo la morte del padre, vive con l’ecolalia, ripetendo ogni frase due volte come una sorta di mantra che la aiuta a mantenere il controllo. “Parlare di questi temi è importante. Dobbiamo imparare a chiedere aiuto”, sottolinea l’attrice, che regala al personaggio una vulnerabilità disarmante.
Il regista sottolinea che il cuore del film è un racconto delle ossessioni contemporanee, portato avanti con una leggerezza che non banalizza mai i temi trattati. “La commedia nasce dal dramma,” spiega, “ma il nostro obiettivo non era risolvere magicamente i disturbi dei protagonisti, bensì offrire uno sguardo affettuoso e divertito che permetta di affrontare questi temi con meno paura”.
E così, la stanza d’attesa si trasforma in un laboratorio umano in cui i sei pazienti, nell’attesa del dottor Stern, decidono di improvvisare una terapia di gruppo autogestita. Costretti a confrontarsi con i propri tic e manie davanti agli altri, i personaggi trovano in questa assurda situazione la chiave per affrontare i loro traumi. E il risultato è sorprendente: risate, tensioni, momenti di dolcezza e riflessione si intrecciano in un crescendo emotivo che culmina in un finale che lascia il pubblico con il sorriso e qualche pensiero in più.
Il film non si limita a raccontare i protagonisti, ma ci invita a riconoscere in loro una parte di noi stessi. Chi non si è mai chiesto, almeno una volta, se ha chiuso il gas? Chi non ha mai contato ossessivamente qualcosa o temuto di essere escluso? Come ricorda Valentina Lodovini, “ognuno di noi ha le sue manie, piccole o grandi, e accettarle è un modo per vivere meglio.”
E forse è proprio questa la vera terapia che il film ci propone: ridere di noi stessi, abbracciare le nostre imperfezioni e trovare, in mezzo al caos delle nostre ossessioni, un pizzico di serenità.