Il ragazzo dai pantaloni rosa,, il film diretto da Margherita Ferri e presentato nella sezione Grand Public in collaborazione con Alice nella Città, è un pugno allo stomaco, uno schiaffo in faccia che ci costringe a guardarci intorno, a chiederci quanto siamo realmente complici. Sì, complici di quel silenzio che, in fin dei conti, ha ucciso Andrea Spezzacatena, il giovane protagonista di questa storia.
Il bullismo, quel male sottile che si insinua nelle pieghe della quotidianità, si trasforma qui in un grido disperato che, dall’aldilà, Andrea cerca di farci sentire. Attraverso la sua voce, ci parla di un inferno che non ha fiamme visibili ma brucia lo stesso, fatto di parole, gesti e sguardi che in apparenza non sembrano così letali. Ma quando l’anima si trova sola, vulnerabile, abbandonata, anche una risata beffarda può essere un colpo di grazia. Andrea aveva quindici anni, una famiglia amorevole e buoni voti a scuola, eppure niente di tutto questo è bastato a salvarlo da quel baratro.
Il film, che sembra costruito con delicatezza chirurgica, si apre su una scena che potrebbe essere qualunque: un adolescente come tanti, che però, a differenza di molti, decide di sparire dal mondo. Quello che colpisce non è tanto il gesto disperato, quanto il fatto che nulla, o quasi, lasciava presagire una fine così tragica. Ferri ci mostra il bullismo nella sua forma più moderna e insidiosa, il cyberbullismo, è un’ombra che segue Andrea ovunque, anche quando torna nella presunta sicurezza della sua stanza. Ogni post, ogni commento, ogni risata sui social è come un veleno che goccia a goccia lo spegne.
Non ci sono buoni contro cattivi. I personaggi del film sono complessi, sfaccettati, tridimensionali. Christian, Andrea Arru, il bullo principale, non è un mostro senza cuore, ma un ragazzo schiacciato dalle aspettative sociali di cosa significa essere un “vero uomo”. Il bullismo, insomma, non è solo questione di individui crudeli, ma di una società che soffoca chiunque non rientri nei suoi schemi.
La scelta narrativa di affidare la voce narrante ad Andrea, interpretato da Samuele Carrino, dall’aldilà è potente, a tratti disturbante, ma tremendamente efficace. Il bulloCi troviamo di fronte a un ragazzo che, ormai libero dalla sofferenza terrena, ci parla con una lucidità che prima gli era negata. È come se ci stesse dicendo: “Vedete? Non ho avuto altra scelta, ma forse voi sì”. Il tono è ironico, a tratti persino leggero, ma carico di una consapevolezza che toglie il respiro. La voce di Andrea diventa la guida di un viaggio che attraversa il dolore senza mai cadere nella retorica del “poverino”. Qui non ci sono vittime da piangere, ma esistenze da capire e, forse, da salvare.
La regia di Ferri si gioca su un filo sottile tra realismo e distorsione. La macchina da presa segue i personaggi con grazia, la madre Teresa Manes interpretata da Claudia Pandolfi, immergendoci nelle loro vite senza invadenza, ma catturando ogni sfumatura, ogni esitazione, ogni sorriso mancato. C’è una bellezza cruda in questo racconto, un’estetica che riflette la vitalità spezzata di Andrea, soprattutto nelle scene iniziali, cariche di energia, che poi si trasformano in una lenta discesa nel buio.
Ma la vera arma letale in questa storia non sono tanto i bulli, quanto il silenzio. Quello stesso silenzio che Andrea credeva lo avrebbe protetto, che gli sembrava l’unica via per sopravvivere al dolore. E qui entra in gioco la sceneggiatura di Roberto Proia, che non lascia spazio a moralismi o soluzioni facili. Non c’è mai una voce fuori campo che ci dica cosa fare o chi incolpare, perché il problema non è solo fuori, ma dentro ognuno di noi. Andrea ha scelto di tacere, di non chiedere aiuto, convinto che nessuno lo avrebbe ascoltato davvero. E forse aveva ragione.
Il film, con tutta la sua carica emotiva, ci trascina in un viaggio che non parla solo di Andrea, ma di tutti noi. Parla a chi è stato bullizzato, a chi ha bullizzato e, soprattutto, a chi ha fatto finta di non vedere. È una riflessione potente su cosa significhi davvero essere adolescenti oggi, in un mondo dove i social media amplificano ogni insulto, ogni gesto crudele, rendendoli immortali.
Come dice Andrea nel film: “Ognuno di noi ha il potere di fare la differenza. Sta a noi decidere se usare le parole per ferire o per salvare”.