Il treno dei bambini, diretto da Cristina Comencini e tratto dal romanzo di Viola Ardone, racconta una delle pagine più straordinarie e meno conosciute del secondo dopoguerra italiano. Il film, presentato alla Festa del Cinema di Roma e disponibile dal 4 dicembre su Netflix, ci catapulta in un’Italia divisa tra miseria e speranza, dove la solidarietà assume un ruolo centrale in un contesto di profondo disagio sociale.
Siamo nel 1946, e Amerigo (Christian Cervone), un vivace bambino di otto anni, vive in una Napoli devastata, la città più bombardata d’Italia, dove la fame e la miseria sembrano non lasciare scampo. La madre Antonietta (Serena Rossi, in un ruolo che evoca la durezza e la bellezza della donna meridionale alla Sophia Loren), incapace di garantire un futuro al figlio, lo affida ai “treni della felicità”. Questi treni, un’iniziativa dell’Unione Donne Italiane e del Partito Comunista Italiano, trasportavano migliaia di bambini del Sud verso le regioni più ricche del Nord, per allontanarli temporaneamente dalla povertà estrema e offrire loro la possibilità di una vita migliore.
Ma qui entra in gioco la vera magia del film: la trasfigurazione. Il viaggio di Amerigo verso il Nord, con quel cappotto nuovo che promette un futuro diverso, non è semplicemente un cambiamento geografico, ma una traslazione in un altro universo. L’Emilia nebbiosa che lo accoglie, con Derna (Barbara Ronchi) come custode di un affetto congelato, è una sorta di città ideale, un mondo fatto di nebbie, dove le geometrie della vita sembrano più ordinate, ma non per questo meno complesse. Il Nord non è un paradiso, ma una realtà parallela in cui le ferite di un bambino del Sud vengono sublimate e rimodellate.
Comencini costruisce una Napoli che, come il kitsch più autentico, diventa simbolo di un’Italia intera: ferita, ma grandiosa nella sua caduta. Una città che, nel suo grottesco splendore di macerie, si contrappone alla freddezza monumentale del Nord. Il film non si limita a rievocare il passato: lo dilata, lo stravolge, lo rende quasi mitologico. Il dialogo tra Antonietta e Derna non è solo uno scontro tra due culture, ma una riflessione sul significato più profondo dell’essere madre, del dare e ricevere amore in un mondo che sembra in caduta libera.
E poi c’è la storia reale, quella che risuona sotto ogni fotogramma come un’eco lontana. Tra il 1946 e il 1952, migliaia di bambini del Sud furono mandati al Nord in affido temporaneo, una sorta di esodo interno, dove la solidarietà diventava l’unica forma di resistenza contro l’entropia sociale che minacciava di inghiottire tutto. La stessa Serena Rossi porta il peso emotivo di questa realtà nella sua interpretazione, con la sua personale connessione familiare a quegli eventi, come se il film fosse anche un pezzo di memoria collettiva che torna a galla per ricordarci chi siamo stati.
Ma è proprio qui che il film diventa sovversivo: Il treno dei bambini non è solo una celebrazione della solidarietà, ma un monito. Le cicatrici dell’Italia di allora sono le stesse che oggi vediamo nelle tragedie contemporanee, nei bambini che arrivano sulle nostre coste in cerca di salvezza. La Comencini non fa sconti: la sua critica è lucida, tagliente. Quella stessa solidarietà che una volta sembrava possibile, oggi appare quasi un ricordo sbiadito, soffocato dall’indifferenza e dall’egoismo moderno.