Con L’orto americano, Pupi Avati mescola il gotico e il noir con elementi di realismo storico per una storia che si svlhe tra lItalia devastata dal dopoguerra e l’America del Midwest.
Presentato fuori concorso in chiusura della Mostra del Cinema di Venezia, al centro c’è la figura di u giovane che, dopo aver incontrato una u ‘infermiera dell’esercito americano durante la guerra, sviluppa un’ossessione nei suoi confronti che lo spinge a seguirla negli Stati Uniti. Qui, il confine tra realtà e immaginazione si dissolve progressivamente, simboleggiato dall’orto che separa la sua casa da quella della madre della ragazza, che, vive nel tormento per la scomparsa della figlia. Barbara non dà più notizie da quando ha annunciato il suo fidanzamento con un italiano. Il protagonista si immerge in una ricerca disperata che lo porterà a compiere un viaggio fisico e mentale, culminando in una drammatica conclusione in Italia.
“Il confine tra l’Italia distrutta e l’America rassicurante rispecchia perfettamente il disagio mentale del protagonista,” ha spiegato il regista durante la conferenza stampa. Il suo personaggio vive sospeso tra un amore idealizzato e la propria instabilità psicologica, un tema centrale che emerge in ogni aspetto del film.
Il periodo del dopoguerra, secondo il regista, rappresentava un terreno fertile per questo tipo di narrazione: un’Italia in rovina, dove la ricerca di normalità si scontrava con la brutalità della guerra appena terminata. “È la prima volta che mi addentro in questo periodo storico,” ha confessato, “un momento di grande disillusione in cui la giustizia veniva somministrata in modo affrettato, come dimostrano i processi dell’epoca.”
In questo contesto di devastazione, l’ossessione del protagonista per un amore impossibile si inserisce perfettamente, riflettendo il caos interiore di un uomo che cerca risposte in un mondo frammentato. “Non si tratta solo di amore,” ha proseguito il regista, “ma di una ricerca di senso in un mondo che ne è privo.”
Un elemento che emerge con forza nel film è l’aspetto personale e intimo della storia. Il regista stesso ha ammesso di aver infuso nella pellicola molti dei propri sentimenti e riflessioni sulla vita e sulla vecchiaia. “Sto entrando in una fase della mia vita in cui sento il bisogno di essere sincero, quasi fino al punto di espormi al ridicolo,” ha confessato.
Durante la conferenza, il regista ha condiviso un aneddoto personale che ha influenzato la creazione del protagonista: “Ogni notte recito i nomi delle persone care che non ci sono più. È un rituale che mi dà conforto.” Questo dettaglio, profondamente intimo, è stato uno spunto per il disturbo mentale del protagonista, che si perde tra immaginazione e realtà, proprio come il regista stesso cerca di trovare un equilibrio tra la vita presente e i ricordi del passato.
Il film è stato girato interamente in bianco e nero, una decisione nata, come ha rivelato il regista, dopo una conversazione con suo fratello: “Dopo aver letto il copione, mio fratello mi ha detto che dovevo girarlo in bianco e nero, e aveva ragione.” Questo dettaglio stilistico non è solo un omaggio ai grandi maestri del cinema americano, come ha ammesso il regista (“Ci sono almeno dieci momenti nel film che sono un tributo ai registi che ho amato da giovane”), ma anche una dichiarazione d’intenti.
Il bianco e nero legittima l’inverosimile, aiuta a creare un’atmosfera fuori dal tempo, in cui la linea tra realtà e finzione è sfumata. “Nel cinema, l’altrove è possibile: accadono cose che nella vita reale non avvengono, e il bianco e nero ci permette di accettare queste situazioni.”
In attesa dell’uscita nelle sale, prevista tra febbraio e marzo, L’orto Americano sembra destinato a essere uno dei film più originali degli ultimi anni, m dove l’amore si confonde con l’ossessione e i fantasmi del passato non smettono mai di tormentare.