Dopo vent’anni di carriera costellata da successi come Il Resto di Niente, Antonietta De Lillo si è trovata ad affrontare un sistema che, invece di celebrarne il talento, l’ha ostracizzata per aver osato mettere in discussione i meccanismi di distribuzione del suo lavoro. Questo episodio si è concretizzato in una citazione per diffamazione dall’Istituto Luce, un’entità che, ironicamente, dovrebbe rappresentare la luce del cinema italiano. L’accusa, accompagnata da una richiesta di risarcimento di 250.000 euro, risale al 15 dicembre 2005 e rappresenta una forma moderna di censura, una censura che, come già osservava Ettore Scola, non si attua più con tagli alla pellicola, ma con querele e azioni legali. Questo tipo di repressione si è radicato nel tessuto culturale del nostro paese, soffocando la voce di chi osa sfidare lo status quo.
L’Occhio della Gallina non è solo un ritorno alla regia, ma un viaggio interiore e artistico che De Lillo intraprende con una consapevolezza maturata nel dolore e nella lotta. Il film, presentato alle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Notti Veneziane, è una dichiarazione di guerra contro un sistema che tenta di relegare l’arte al silenzio, ma anche un invito a riscoprire la potenza del cinema come strumento di resistenza e cura. La scelta del titolo non è casuale: l’occhio che si chiude dal basso verso l’alto è una metafora potente di un mondo capovolto, in cui la giustizia è distorta e la verità viene compressa in un angolo oscuro.
La narrazione si sviluppa all’interno di un teatro di posa che assomiglia più a un grande sgabuzzino, un luogo che rappresenta simbolicamente l’esclusione dal mondo del cinema d’élite. Qui, De Lillo ci conduce attraverso una riflessione intima, quasi claustrofobica, dove ogni elemento scenico diventa un simbolo della sua esperienza. Nonostante la semplicità dell’ambientazione, il film esplora tematiche di portata universale, come la gestione del potere, la marginalizzazione culturale.
Il coraggio di De Lillo nel portare avanti questo progetto nonostante le avversità è evidente in ogni fotogramma. Il suo approccio autoriale, lontano dalle logiche commerciali, si riflette in una narrazione che non cerca di compiacere lo spettatore, ma di provocarlo, di scuoterlo, di fargli prendere coscienza delle dinamiche di potere che permeano ogni aspetto della nostra società.
Le parole della regista risuonano come un monito: “Il cinema è un’arma potente, necessaria e culturale e in un mondo dove i modelli culturali tradizionali sono in crisi, deve ritrovare il suo ruolo cruciale di veicolo di cambiamento e di opposizione”.