Auschwitz, campo di concentramento della Seconda Guerra Mondiale, si è progressivamente imposto nel mondo come il simbolo dei crimini del Terzo Reich. Più di un Milione di persone vi sono state assassinate: l’immensa maggioranza erano ebrei provenienti da tutti i Paesi dell’Europa occupata dalla Germania di Hitler.
Ma Auschwitz non è stato solo un sistema concentrazionario, è stato anche uno dei luoghi principali scelti dal regime nazista per tentare di realizzare la “Soluzione finale”, il genocidio degli ebrei.
Questo il perimetro letterale e materiale La Zona d’interesse (The Zone of Interest) il nuovo film di Jonathan Glazer, premiato con il Grand Prix al Festival di Cannes 2023 e proiettato in anteprima italiana alla 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma.
Tratto dal romanzo omonimo di Martin Amis, il regista disegna un dramma dentro la macchina dell’Olocausto, trasformando il protagonista del libro nell’ufficiale delle SS, Rudolf Höss, il vero e reale comandante -“tecnico dello sterminio”- del campo di Auschwitz.
Una realistica e paradossale ricostruzione, appena al di là del muro, della vita felice dei carnefici, dove è (o)scena la cura maniacale per la casa, lo spirito bucolico, l’amore per moglie e figli fino alla cura meticolosa per le piante e al rispetto per la natura animale. Dunque la potenza di una proprietà privata dentro la narrazione totalizzante dello Spazio Vitale del Reich, ascende, grazie ad atrocità indicibili, asetticamente alla borghesia, tra inconsapevolezza emotiva e obbedienza al moderno Leviatano.
I film di finzione storica sull’argomento per la maggior parte hanno avuto l’intento più o meno dichiarato di provocare lo sdegno dello spettatore attraverso una ripulsa emozionale prodotta da un lavoro sulla messa in scena. Glazer, che gira il film in tedesco, prova a spiazzare la “monumentalità della Memoria” provando a far emergere la questione del senso del linguaggio cioè della giusta distanza sia dall’oggetto Concentrazionario (fino al punto di non mostrarlo o di farlo indirettamente) sia dalle altre immagini «documentarie» che popolano la galassia audiovisiva e che minacciano di fagocitare, proprio perché troppo visibile, ogni immagine della Shoah.
La potenza “non tranquillizzante ” del Film nei confronti dello spettatore è rimuovere- tenere in controcampo- i Lager, che per buona parte della pellicola sono rimossi, tenuti fuori Campo..tranne un sottofondo sonoro, sinfonia di dolore e abisso, dove si distinguono i rumori della mastodontica Opera di morte; detournando i consueti contrasti tra immagini e musica, Mica Levi, autore della colonna sonora, fonde una intermittenza angosciosa con il suono ambientale producendo un frastuono paralizzante.
Il racconto di Glazer, al cinema dal 22 febbraio, si muove abilmente nel freddo realismo dell’ordinaria vita domestica della famiglia Höss, un piccolo Eden fatto di rituali geometrie e normalità grazie anche alla quasi assenza di qualsiasi obbediente retorica hitleriana. L’immagine minimale, fredda, rimanda -sia per inquadrature che cromie- al documento storico delle pellicole a colori della guerra.
Nella voluta ‘insufficienza della “spiegazione”, il copione concede delle visioni favolistiche dove l’immaginazione sognata della pietà si specchia nelle fiabe dei Fratelli Grimm. Il “buio della Storia”, fatto di demoni e metastasi, tormenterà comunque la natura ordinaria dei suoi protagonisti. Ma è la logica perversa, spietata, burocratica, dei numeri del Quarto Reich, quella che Glazer vuole evidenziare. Ma qui siamo oltre lo Specialista Eichmann(e il suo Processo)con gli scorci di tecnologia applicata allo sterminio, nella egemone definizione -coniata da Hannah Arendt- di “ banalità del male”.
Oltre ai sogni e gli incubi di Hoss, altro specialista, nel film la verità si insinua nominando più volte-nei dialoghi tra gli alti ranghi del Regime- i nomi delle molte civili industrie tedesche (orgoglio del capitalismo contemporaneo) che nelle sezioni di lavoro dei lager organizzano il lavoro dei prigionieri.
Anche queste sigle sono un rumore di fondo , un dialogo che certamente non rassicura come gli l’esorcismi del “male assoluto” rappresentati da recenti docufiction. Se cerchiamo qualche affinità con dei recenti lavori cinematografici volti anche a decostruire lo sguardo esotico-turistico del ricordo possiamo ricordare “Austerlitz” di Sergei Loznitsa.
Ogni film storico porta con se’ un carico di problemi, l’opera di Glazer, laddove Storia e Costume appaiono complementari, volutamente rovescia quasi il Mito della caverna di Platone. Il dubbio dell’estetizzazione viene rotto grazie allo scarto temporale – flash future-che ci riporta al Museo del XX Secolo come l’opera miliare di Aalin Resnais, “Notte e Nebbia”. La visione del futuro è in realtà il Presente. Che suggerisce la sottile distanza tra noi- banalmente innocenti- e gli orrori contemporanei